Eurozona al bivio: 2015, anno della svolta?

Il protrarsi della crisi, indotto dalla politica di austerità, funzionale a forzare riforme che sarebbe difficile far passare in tempi normali, sta facendo crescere in vari paesi i partiti che chiedono un’alternativa e l’anno prossimo ci potrebbero essere i primi cambi di governo. Anche Renzi è sul filo del rasoio

La crisi si annunciò nell’autunno del 2008, dopo il collasso della Lehman Brothers, come tendenzialmente globale, paragonabile a quella del 1929. Ma mentre entriamo nel settimo anno del dopo crisi quel giudizio deve essere corretto. Il rischio di una crisi globale è stato scongiurato. L’unica area che vi rimane impantanata è l’eurozona. Non si tratta di un esito fatale. E’ sempre più evidente che il problema non è nella natura della crisi, ma negli strumenti utilizzati per governarla. Non solo inefficienti, ma un boomerang che ne estende e moltiplica gli effetti disastrosi.

La responsabilità di questo stato di cose è generalmente attribuita alla politica di austerità imposta da Berlino e, in subordine, alla tecnocrazia di Bruxelles. Ma è una verità parziale e, per molti versi, un alibi. Le politiche di austerità, ormai universalmente considerate sbagliate e irragionevoli quanto devastanti, non sarebbero applicabili senza il consenso e la complicità più o meno aperta dei governi che condividono la responsabilità dell’eurozona.

Il caso della Francia e dell’Italia è eloquente. Si tratta dei due paesi che, insieme alla Germania, sono all’origine prima dell’Unione europea, poi dell’euro. Il passaggio all’euro fu in particolare il risultato della determinazione della Francia con Mitterand e Delors, in un quadro d’incertezza, se non di ostilità, della Germania, superato solo in virtù dalla scelta di Kohl che considerò l’euro come un necessario fattore di riequilibrio dei rapporti europei dopo l’unificazione tedesca.

L’austerità adottata come risposta alla crisi finanziaria del 2008 era conforme alla tradizionale politica tedesca. In Germania gli effetti restrittivi della domanda interna sono tradizionalmente bilanciati da un costante ed enorme avanzo commerciale basato sulla sua potenza industriale. Non è la stessa cosa per la maggior parte dei paesi della moneta unica, dove la caduta della domanda interna si traduce immediatamente nel circolo vizioso di riduzione della crescita e aumento della disoccupazione, .

Si tratta esattamente di ciò che è successo con la politica dell’austerità. Concepita come strumento di riduzione del debito ha prodotto l’effetto contrario. In tutta l’eurozona il debito è cresciuto, e in alcuni paesi in modo patologico. La Grecia sottoposta alla cura massacrante della della Troika ha visto aumentare il suo debito fino al 175 per cento del Pil.  La Spagna, che era il paese più “virtuoso” con un rapporto debito/Pil inferiore a quello della Germania, l’ha visto salire dal 40 a quasi il 100 per cento, mentre un quarto della popolazione attiva rimaneva disoccupata.

La domanda è come sia stato possibile che i governi e le élite nazionali si siano ciecamente sottoposti a un tipo di politiche così insensate rispetto alle quali i costi superano chiaramente i benefici attesi. La risposta è nel fatto che l’austerità non è stata mai presentata e praticata come una politica autosufficiente e fine a se stessa. Essa è parte di un binomio indissolubile che lega l’austerità alle riforme di struttura.

In effetti, nessun governo nega gli inconvenienti dell’austerità. Ma, dal punto di vista delle élite economiche dominanti, i suoi danni immediati trovano una compensazione negli effetti a lungo termine delle riforme strutturali.

Vi è di più. L’austerità, con il clima di emergenza che genera, un livello insopportabile di disoccupazione e l’inarrestabile impoverimento delle famiglie, crea i presupposti di quelle riforme strutturali (in altri tempi si sarebbero definite “controriforme”) che per la loro impopolarità sarebbe difficile, se non impossibile, attuare in condizioni normali. C’è da aggiungere che, a differenza dell’austerità, le riforme di struttura hanno l’ingannevole vantaggio di presentarsi politicamente come una formula ibrida di modernizzazione, facilmente adattabile alla retorica della destra come della sinistra.

In effetti, al di là delle variazioni sul tema, il cuore delle riforme strutturali si concentra in un trittico elementare: la riduzione della spesa pubblica destinata allo stato sociale; la definitiva deregolazione del mercato del lavoro con la liberalizzazione dei licenziamenti; la privatizzazione dei settori manifatturieri e dei servizi ancora pubblici in grado di generare profitti.

La trappola dell’eurozona ha funzionato perfettamente con i governi di destra, come si è visto nella Spagna di Rajoy o nella Grecia di Samaras. Niente di anomalo fin qui. L’anomalia sta piuttosto nelle politiche dei due governi di centrosinistra di François Hollande e Matteo Renzi. Entrambi hanno posto le riforme strutturali al centro dei loro programmi con l’obiettivo di ottenere dalla tecnocrazia di Bruxelles qualche misera indulgenza rispetto ai vincoli dell’austerità che impongono una marcia forzata verso il pareggio strutturale del bilancio e la riduzione del debito.

Hollande e Renzi, alla testa della seconda e della terza economia dell’eurozona, potevano mettere in discussione con ragioni inoppugnabili la politica dell’austerità. Non l’hanno fatto. Hollande, divenuto il più impopolare presidente della storia della V Repubblica, cerca di conservare l’apparenza di una tramontata partnership con la Germania; mentre Renzi cerca di ottenere un’illusoria benevolenza della Germania e, secondariamente, di Bruxelles, in cambio delle riforme, tra le quali non a caso spicca la riforma del lavoro.

E’in questo quadro d’impotenza e rassegnazione che Francia e Italia affidano le speranze di una svolta al piano Junker e alla nuova strategia annunciata da Mario Draghi. Ma il piano Junker si rivela un puro strumento di distrazione di massa. La cifra di 315 miliardi di euro da suddividere in tre anni tra 28 paesi è una goccia d’acqua nel deserto degli investimenti. La prima manovra di Barack Obama, quando s’insediò alla Casa Bianca, fu uno stanziamento, a carico de bilancio federale, di 800 miliardi di dollari – un ammontare considerato insufficiente da molti economisti americani, probabilmente a ragione, ma che contribuì a bloccare la caduta dell’economia e a incentivare la ripresa dell’occupazione.

Al di là dell’esiguità del piano, in realtà i trecento miliardi non esistono, dal momento che i fondi messi a disposizione dalla Commissione europea, sommati a quelli della Banca europea degli investimenti, corrispondono a 21 miliardi, mentre un ammontare quindici volte maggiore dovrebbe provenire dal settore privato. Una bolla di sapone che dovrebbe offendere la normale intelligenza di un qualsiasi rispettabile governo.

Più seria appare l’attesa di una svolta della Banca centrale europea che nelle intenzioni di Mario Draghi dovrebbe immettere nell’economia reale almeno 500 miliardi di euro, offrendo liquidità alle banche private e –  la grande novità – acquistando direttamente titoli di Stato.

Ma, quanto alle banche, il problema fondamentale non è la mancanza di liquidità, ma la mancanza di domanda di credito da parte delle imprese. Lo dimostra il fatto che le banche non stanno utilizzando, se non in misura molto ridotta, la disponibilità di risorse già messa a disposizione dalla BCE a tassi prossimi alo zero, in funzione di un ampliamento del credito a favore delle piccole e medie aziende e delle famiglie. Un rilancio degli investimenti non può venire da questo lato.

La novità di un “quantitative easing” europeo acquista senso solo nella misura in cui gli Stati nazionali possano attingere alle risorse offerte dalla BCE non solo per il rinnovo del debito in scadenza, ma per finanziare un grande piano di investimenti pubblici immediatamente operativo, in grado di mobilitare risorse private inattive e rilanciare crescita e occupazione.

In questo caso, si tratta di spesa pubblica destinata nel breve periodo ad accrescere il disavanzo oltre le soglie dei vincoli europei. In altri termini, si tratterebbe di operare una netta distinzione fra la spesa corrente, da contenere, e la spesa per investimenti da accrescere in una misura idonea a rilanciare la crescita e l’occupazione. Ma è esattamente questa distinzione che le autorità dell’eurozona e la Germania non consentono. Ne discende che anche l’attesa messianica di un intervento salvifico della BCE finisce con l’urtare e infrangersi contro gli irragionevoli vincoli dell’eurozona. Un cane che si morde la coda. L’auspicata espansione monetaria in un quadro di restrizione fiscale è un circuito che non si chiude con l’impossibilità di rilanciare investimenti, crescita e occupazione.

La rimozione dei vincoli che paralizzano l’eurozona è un problema politico che implica una chiara svolta nei confronti dell’asse Berlino-Bruxelles. E’ un obiettivo possibile, oltre che auspicabile? La risposta rimane fortemente incerta. E, tuttavia, il 2015 presenta un quadro in movimento che lascia intravedere nuovi possibili scenari.

Sorprendentemente, proprio la Grecia che innescò la crisi finanziaria dell’eurozona oggi si presenta come una possibile traccia di svolta politica. Syriza, il partito della nuova sinistra di Alexis Tsipras, è secondo tutti i sondaggi d’opinione, il più che probabile vincitore delle prossime ravvicinate elezioni generali. La novità che potrebbe cambiare le sorti della Grecia ma anche aprire un nuovo scenario nell’eurozona è nell’originalità della posizione di Tsipras. Il suo programma esclude in linea di principio un’uscita dall’euro, mentre rivendica una ristrutturazione del debito e una rinegoziazione dei vincoli di bilancio come strumento di un’inversione delle politiche sociali, a cominciare dall’aumento del salario minimo legale, la riduzione delle tariffe pubbliche per le famiglie più povere, un aumento dell’occupazione nei servizi pubblici. In sostanza il superamento del binomio austerità-riforme di struttura che ha massacrato la Grecia, riducendo di un quarto il prodotto nazionale e portando la disoccupazione a u disastroso 25 per cento della popolazione attiva.

Si tratta di un fondamentale cambiamento di scenario politico non solo per la Grecia, ma per l’eurozona nella misura in cui sarebbe superata l’alternativa ricattatoria: dentro o fuori dell’euro. Il rifiuto da parte delle autorità europee di ridefinire i termini di un ragionevole rapporto con uno stato membro, che non professa una politica anti-europea (come accade per l’UKIP in Gran Bretagna, e nemmeno anti-euro, com’è il caso del Fronte nazionale di Marine Le Pen in Francia) non potrebbe rimanere chiuso nei confini greci. La scelta di una prima rottura con la Grecia, fino alla sua espulsione, aprirebbe la strada a una probabile reazione a catena.

Il primo dei paesi a trovarsi in una condizione analoga a quella greca è la Spagna con la sconfitta del governo Rakoy, che alle elezioni europee ha perduto il 20 per cento dei voti. L’emersione di Podemos, erede del movimento degli Indignados e oggi dato come primo partito dai sondaggi di opinione, potrebbe aprire la strada a una nuiva alleanza col Partito socialista, in direzione di un'alternativa a una potica votata al binomio austerità-riforme strutturali, che ha compiuto il "miracolo"di far esplodere il debito e portare la disoccupaizone allo stesso livello della Grecia..

Il paradosso politico dell’eurozona è che dove governano i partiti di destra si delinea come possibile un’alternativa di sinistra in linea di principio non contraria all’euro ma decisa a cambiarne la politica autodistruttiva. Al contrario, in Francia, dove governa il Partito socialista, l’alternativa è l'avanzata della destra di Marine Le Pen con un programma di uscita dall’euro.

L’Italia si presenta con un quadro economico disastroso, reduce da tre anni di recessione e destinata a una lunga fase di ristagno e di disoccupazione, già più che raddoppiata rispetto all’inizio della crisi nel 2008. E non è un caso che, secondo i sondaggi condotti per conto della Commissione europea, per la prima volta la maggioranza degli elettori si dichiari contraria all’euro o, quanto meno, alla politica corrente dell’eurozona.

Il governo di Renzi corre sul filo del rasoio. Il consenso plebiscitario ottenuto alle elezioni europee appare fortemente logorato dalla persistenza e dall’aggravamento della crisi. Nel caso probabile di elezioni anticipate alla prossima primavera, il movimento di Grillo, che chiede un referendum sull’euro, consoliderà verosimilmente la sua posizione di secondo partito, mentre al terzo posto potrebbe emergere la Lega di Salvini schierata sulle posizioni del Fronte nazionale di Marine Le Pen. Con la probabilità che ciò che resta del fronte berlusconiano, una volta esaurite le ragioni del sostegno implicito al governo, adotti formalmente una posizione di rottura con le politiche europee.

Il rischio che si riproduca in Italia una situazione di tipo francese con altri protagonisti è tutt’altro che remoto. Sarebbe la riconferma di una prospettiva che fa delle forze di centrosinistra storicamente europeiste, le vittime eccellenti dell’assurda e masochista politica dell’eurozona.

In questo quadro appartiene al normale buon senso constatare il fallimento dell’eurozona, proprio quando la crisi del 2008 avrebbe dovuto mostrarne ed esaltarne le capacità di reazione ed esiti più apprezzabili rispetto a quelli verificatisi in altri paesi o aree ugualmente colpiti. Ora la crisi economica con la sua deriva sociale minaccia di corrodere in profondità le basi della democrazia dei paesi più in difficoltà. Ogni previsione sul  futuro dell'eurozona a medio termine si presenta problematica. Ma non è un azzardo ritenere che il 2015 si annunci per molti aspetti come un anno cruciale per il suo destino.

Mercoledì, 17. Dicembre 2014
 

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