Tutele crescenti? Sì, per le imprese

Il nuovo contratto non solo non mantiene, se non per un caso limitato, quello che il nome promette, ma invece di semplificare complica ancor di più il panorama normativo del mondo del lavoro, tanto da rendere probabili, tra qualche tempo, richieste di nuovi interventi

Con l'approvazione delle legge delega sul Jobs Act pare imminente il varo di un nuovo tipo contrattuale per l'assunzione dei lavoratori, il contratto a tutele crescenti (di seguito: Catuc).  A tale contratto dovrebbe essere dedicato, in tutto o in parte, il primo dei decreti legislativi ai quali è affidato il completamento di una riforma dai tratti ancora generici, nonostante le precisazioni introdotte nella norma di delega, dovute al travagliato iter parlamentare e all'inquietudine sociale e politica manifestata in vari modi  (tre letture in Parlamento; due voti di fiducia richiesti dal governo; dibattiti infuocati sui mass media; un paio di importanti scioperi nazionali, di cui uno generale; astensionismo alle stelle nelle elezioni regionali calabresi ed emiliane). Per capire con esattezza in cosa consisterà il Catuc occorrerà leggere dunque il testo del decreto legislativo, che, bruciando i tempi previsti dall’art. 1 comma 7 della legge delega (sei mesi), verrà portato all'approvazione di un Consiglio dei ministri pre-natalizio e che però, finora, non è disponibile (salvo anticipazioni giornalistiche più o meno credibili). La parola passerà poi alle Commissioni parlamentari, che avranno trenta giorni per fornire il loro parere; solo una volta decorsi i trenta giorni, il governo potrà definitivamente emanare il decreto legislativo, anche in assenza dei suddetti pareri. Nonostante il ritmo incalzante impresso dal governo anche a questa fase, vi è ancora un po’ di tempo per discutere dentro e fuori dai Palazzi romani. In particolare ci si può chiedere: in cosa consisteranno le tutele crescenti previste dal nuovo contratto e quali saranno i destinatari?

A questa domanda non si può ovviamente fornire una risposta dettagliata, perché la formulazione della legge delega non lo consente. Però alcune ipotesi possono farsi proprio sulla base dei principi e criteri direttivi previsti infine dalla legge delega, che qualcosa in più dice rispetto all’originaria versione. Delle diverse ipotesi si può vagliare anche la praticabilità alla luce dei vincoli generali esistenti, di carattere giuridico e non giuridico.

La prima acquisizione pare quella di un superamento del carattere “sperimentale” del Catuc: infatti la qualificazione in tal senso contenuta nel primo ddl governativo (incerta, invero, perché si diceva “eventualmente in via sperimentale”) è ora scomparsa. Come pure non si trova più traccia della finalità di “inserimento nel mondo del lavoro”, essendo il Catuc da prevedere genericamente “per le nuove assunzioni” (art. 1 c. 7 lett. c della legge delega). Tuttavia si deve aver presente che: a) la finalità generale della riforma della disciplina dei contratti di lavoro è “rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione” (art. 1 c. 7 della legge delega); b) l’art. 1 c. 13 della legge delega abilita il governo ad adottare decreti integrativi e correttivi entro dodici mesi dall’entrata in vigore dei decreti legislativi di prima attuazione (anche qui la formulazione non è del tutto chiara perché ogni decreto legislativo di prima attuazione avrà una sua data di entrata in vigore compresa nell’arco dei sei mesi previsti per l’adozione: quale sarà il dies a quo per i decreti correttivi ovvero per ritenere la delega ancora “aperta”?).   

Ad ogni modo è ora chiaro che il Catuc costituisce la nuova forma negoziale per assumere a tempo indeterminato tutti i lavoratori nel settore privato. Nulla si dice sul lavoro pubblico. Il silenzio non è facile da interpretare, dal momento che, come tra breve si vedrà, il Catuc si caratterizza per una disciplina innovativa in materia di sanzioni per il licenziamento illegittimo, materia che la precedente riforma Monti-Fornero (l. 92/2012) proprio nel lavoro pubblico ha lasciato alle ambasce degli studiosi e degli operatori. Nel dubbio, e considerando che è in discussione tutt’altro provvedimento di riforma del lavoro pubblico (AS 1557), mi sembra da preferire un’interpretazione che lasci fuori le pubbliche amministrazioni da quest’ultima variante del lavoro subordinato, tutta ancora da definire.

Attestandoci sulle ancora poche certezze che fornisce la legge delega, si può dunque dire che il Catuc e' un contratto a tempo indeterminato destinato di sicuro a tutte le nuove assunzioni dei dipendenti del settore privato. Cosa lo differenzia da un “normale” contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato? La legge delega, grazie alle modifiche apportate alla Camera e confermate dal Senato in seconda lettura, dice ora con chiarezza che le uniche differenze riguardano la disciplina dei licenziamenti illegittimi, anzi precisamente le sanzioni da applicare ai licenziamenti illegittimi. Restano ferme le regole generali, in base alle quali non si può mai licenziare un lavoratore senza una giusta causa o un giustificato motivo oggettivo o soggettivo (art. 2119 c.c. e art. 3 della l. 604/1966). Ma il Catuc  potrà essere più facilmente estinto dal datore di lavoro anche con un licenziamento illegittimo, in quanto non è prevista sempre la reintegrazione nemmeno nelle imprese più grandi e nemmeno nelle ipotesi in cui la prevede ora l’art. 18 nella versione rivisitata dalla legge Fornero.

Per capire il complesso dosaggio di cui dovrà essere composto il nuovo contratto a tutele crescenti occorre aver ben presente che il nostro diritto del lavoro proprio in ordine alle sanzioni per i licenziamenti illegittimi si è andato sempre più ingarbugliando negli ultimi 25 anni. Superato infatti con la l. n. 108 del 1990 il regime civilistico della libera recedibilità anche nelle imprese più piccole (ma non per i lavoratori domestici, i dirigenti e gli sportivi), è rimasta una pluralità di sistemi sanzionatori, accentuatasi con la riforma Monti-Fornero.


Semplificando, si può parlare di tre strati di tutele: a) la più forte, a carattere universalistico, riguarda i licenziamenti discriminatori o nulli, per i quali già oggi è prevista in generale la reintegrazione; b) nelle organizzazioni con un certo numero di dipendenti (imprese con più di 60 dipendenti complessivi o unità produttive con più di 15 dipendenti; ma in agricoltura i numeri sono più piccoli) se un licenziamento risulta basato su fatti inesistenti o viziato per ragioni formali, procedurali o sostanziali vi può essere in alcuni casi la reintegrazione e in altri una sanzione risarcitoria che va da un minimo di 6 mensilità ad un massimo di 24; c) nelle imprese più piccole invece è prevista soltanto la sanzione risarcitoria, che va da un minimo di 2,5 mensilità ad un massimo di 6. In tutti i casi sul numero delle mensilità può incidere l’anzianità del lavoratore, che, se superiore a vent’anni, può ad esempio nelle imprese minori incrementare l’indennità fino ad un massimo di 14 mensilità (art. 8 della l. 604/66), secondo il prudente apprezzamento del giudice. A  questo occorrerebbe poi aggiungere il sistema sanzionatorio previsto per i licenziamenti collettivi o per riduzione di personale. Insomma un bel ginepraio.

La riforma Renzi non elimina tutto ciò. Aggiunge invece il Catuc, per il quale occorre, secondo la delega, distinguere i licenziamenti economici da tutti gli altri. Per i primi, ove viziati per qualsiasi motivo (dubbio fondamento; vizi formali o procedurali; scorretta individuazione del lavoratore interessato; possibilità di recuperare la prestazione in altra posizione organizzativa), non potrà mai operare la reintegrazione, ma solo un sistema sanzionatorio di tipo indennitario, nel quale le indennità dovranno essere crescenti con l’anzianità di servizio. Per gli altri invece la reintegrazione rimane: con estensione massima in caso di licenziamenti discriminatori o nulli; con un ridimensionamento per i licenziamenti disciplinari, in quanto va prevista solo “per specifiche fattispecie” (art. 1 c. 7 lett. e della delega).

Fin qui la delega ci dice dunque con sufficiente chiarezza che le tutele crescenti devono consistere in una graduazione delle sanzioni economiche per il licenziamento economico illegittimo, graduazione da rapportare all’anzianità di servizio. Negli altri tipi di licenziamento non c’è nulla di crescente; c’è solo da ridimensionare l’ambito di applicazione della reintegrazione.       

Vorrei qui tralasciare i problemi specifici riguardanti il nuovo assetto dei licenziamenti disciplinari, per guardare ancora un po’ più da vicino come potrebbero essere strutturate le tutele crescenti.

Innanzitutto occorre distinguere nettamente tra l'area in cui la reintegrazione è esclusa e le altre. La prima è quella del licenziamento economico, che può identificarsi con i casi in cui si procede al licenziamento in presenza di una valida ragione economica o organizzativa. Chi soppeserà la validità delle ragioni? Cosa accade se quelle ragioni risultano infondate? Sono aspetti da regolare, rispetto ai quali non ci si può limitare a dire che il giudice non può entrare nel merito delle ragioni per cui l’impresa fa una cosa o l’altra. Questo principio è giusto; ma altrettanto giusto è che si possa verificare se si sia davvero in presenza di un licenziamento economico o no. Qualora non sia così, il licenziamento può essere pretestuoso o fraudolento e la reintegrazione potrebbe rientrare in gioco. Almeno se non sussiste un giustificato motivo soggettivo.

C’è poi la questione della entità della sanzione. Su che livello occorre attestarsi? Qui il legislatore non è libero. Se va sotto il minimo di 2,5 mensilità, abbassa tutto al livello del "terzo strato" di cui sopra si diceva. Ma anche il minimo di 6 è poca cosa, specie rispetto alla residua possibilità di reintegrazione che rimane per gli altri lavoratori. Pure il massimo non è agevole da definire (i numeri di mensilità di cui si parla sono i più vari:6,12,24,36), specie rispetto alla progressione: con che cadenza e incremento? Entro un arco temporale di quanti anni? Oggi la situazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice, che, quando non ricorre alla tutela reintegratoria, può fissare una sanzione pari ad un massimo di 24 mensilità. Occorrerebbe andare oltre. Altrimenti le tutele risultano tutte ridotte e si può dubitare persino della loro congruenza rispetto al fatto che si parla di un diritto sociale fondamentale europeo (art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dei cittadini europei, in vigore dal 2009) che deve essere presidiato da sanzioni efficaci e dissuasive. Anche il riferimento all’anzianità, come si è visto, non è né nuovo né esaustivo. Si può togliere al riguardo discrezionalità al giudice (la delega dice che l'indennizzo deve essere "certo"), ma dilatare l’incidenza dell’anzianità oltre i due/tre anni, per tutti i lavoratori neo-assunti, anche quelli con decenni di esperienza alle spalle, che senso ha? Si configurano solo tutele crescenti per i datori di lavoro. 

Infine si parla di prevedere la possibilità di  risolvere anche consensualmente il Catuc purché il datore di lavoro corrisponda al lavoratore un'indennita' in misura predeterminata e, probabilmente, inferiore alla sanzione risarcitoria prevista per il caso del licenziamento immotivato. Non si tratta di un dettaglio, ma del modo per realizzare il vero obiettivo di molti, cioè consentire lo scioglimento del contratto con il pagamento di una somma (cosiddetta firing o severance cost) senza che vi sia alcun controllo da parte del giudice. È dubbio però che sia possibile congegnare un simile meccanismo impedendo al lavoratore di rivolgersi al giudice per veder dichiarare la nullità dell'eventuale patto di risoluzione viziato da fattori discriminatori o altri gravi elementi. Comunque neanche la risoluzione consensuale,  più o meno inoppugnabile, sarebbe una tutela crescente.

Altre tutele crescenti non sono previste per i lavoratori assunti con il Catuc. I quali saranno comunque beneficiari di tutti i trattamenti di sicurezza sociale previsti per altri lavoratori subordinati (nella versione riformata dallo stesso Jobs Act). Si parla, sempre nel corpo della legge delega, di  "accordi per la ricollocazione" dei disoccupati con misure di sostegno del reddito (art. 1 c. 3 lett.  p), ma non riguardano solo il Catuc e, anzi, sarebbe strano che fossero destinati in via privilegiata a neo-assunti.

Invece per i neo-assunti, com'è noto, sono previsti incentivi nella legge di stabilità per il 2015; questi però c'entrano poco o nulla con le tutele crescenti. Anche se nell’immediato potranno essere la vera ragione di un qualche interesse delle imprese ad assumere con il Catuc. Ma non potranno durare in eterno ed è da escludere che garantiscano tutele crescenti (anzi, secondo primi calcoli, garantirebbero l’effetto contrario: la convenienza datoriale a licenziare dopo un anno).

L'impressione finale è invero che con il Catuc non crescano affatto le tutele dei lavoratori,  bensì  quelle dei datori di lavoro. Forse crescerà  l’occupazione, ma sarà merito soprattutto degli incentivi e, quindi, sarà un'occupazione un po' "dopata" dal denaro pubblico e, soprattutto, non si sa quanto duratura o genuina o meramente sostitutiva.

Quali allora le prospettive di tutele crescenti legate alla riforma del cd Jobs Act? Solo una strada si può intravedere: la cara vecchia contrattazione collettiva, forse più quella praticata nel secolo scorso che negli ultimi decenni. Certo oggi sembrerebbe più a la page pensare a pattuizioni individuali migliorative: ma si tratta ancora di un lusso per pochi. Invece una contrattazione collettiva che si ponesse l'obiettivo rivendicativo di irrobustire le tutele dei neo-assunti con il Catuc potrebbe avere un senso.

In mancanza di efficaci azioni collettive, le tutele crescenti sarebbero tali solo in una logica interna al nuovo contratto e limitatamente all'indennità per i licenziamenti illegittimi.  Rispetto ad altri contratti esistenti le tutele sarebbero invece minori o meno presidiate dalla maggiore facilità di perdere il posto di lavoro. Si porrà dunque il problema di come riequilibrare queste nuove dipendenze. In effetti con il Catuc il contratto di lavoro come relazione giuridica paritaria fa un deciso passo indietro. Nulla toglie però che quel passo indietro possa essere recuperato ad opera della contrattazione collettiva o individuale ove vengano previste sanzioni economiche più gravose per i licenziamenti illegittimi o clausole di durata minima dei contratti, pesantemente sanzionate.Ma, pur essendoci ancora più chance collettive che individuali, occorre chiedersi se esistono oggi le condizioni perché i sindacati propongano piattaforme a tutele crescenti, riuscendo a portare a casa qualche risultato.

In ogni caso, quand'anche vi fosse qualche contratto collettivo con tutele crescenti per i neoassunti, lo scenario post Jobs Act (per ora solo ipotizzato) sembra ancora più segmentato e complesso di quello in vigore fino ad oggi. Perciò si può dire che siamo piuttosto alla vigilia di una confusione crescente sul mercato del lavoro, investito da nuove regole tanto enfatizzate quanto difficili da calibrare e gestire. Non passerà molto tempo che qualcuno tornerà ad invocare drastiche semplificazioni: per uscire dai crescenti bizantinismi introdotti dal Jobs Act.

Domenica, 14. Dicembre 2014
 

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