Caffè, il riformista radicale

A leggere gli interventi dell’economista si resta stupefatti: è scomparso da 25 anni, ma sembrano scritti oggi. La piena occupazione e l’equa distribuzione del reddito sono sempre stati i suoi primi pensieri. Un suo allievo ne ricorda la figura nel centenario della nascita

La prefazione a In difesa del “welfare state” si può considerare il testamento culturale di Federico Caffè; prima di sviluppare questo punto, desidero, tuttavia, ricordare altri tratti della sua vita. Si è, dunque, parlato spesso di lui come di un grande uomo, sebbene fosse una persona molto piccola, contraddistinta, tuttavia, da un volto straordinariamente espressivo di ingegno, ironia e malinconia.


Caffè è stato, invero, un grande uomo, molto generoso, particolarmente con i suoi familiari, nonché con i suoi studenti ed allievi; a questi ultimi chiedeva, allo stesso tempo, rigore, applicazione, capacità di approfondimento, creatività e, soprattutto, il gusto per il dubbio sistematico.

 

Aggiungo che Caffè non era praticante; in proposito mi sento di ribadire che “la sua prodigiosa cultura umanistica trova fondamento, per dirla con Gramsci, in una sorta di “storicismo assoluto”, col quale occorre guardare alle cose del mondo, al di fuori di ogni provvidenzialismo o determinismo metafisico”. D’altra parte, non posso escludere l’intima ricerca di conforto nella religione in momenti cruciali della sua esistenza.

 

Caffè è stato un grande docente: con le lezioni, preparate scrupolosamente e svolte con seducente voce baritonale, trasmettendo valori e tecniche con molto equilibrio; con gli esami orali, condotti con un’inimitabile capacità di confronto con gli interrogati; con la scrupolosa e stimolante attività di relatore di tesi. La sua disponibilità era quasi leggendaria, anche se girerà per il mondo qualcuno degli studenti che ha sperimentato gli scoppi della sua ira, suo incontenibile peccato capitale, come lui stesso affermava, oppure qualche studentessa che conserva ancora i segni metaforici della sua graffiante ed innegabile misoginia.

 

L'aspetto che più colpiva in questo ininterrotto dialogo di massa era la sua capacita di capire le ragioni degli altri. In ciò l’aiutava l'intuizione che “non c'e violenza senza sofferenza”, nonché il suo sdegno “all'idea che un'intera generazione di giovani debba considerare essere nata in anni sbagliati e debba subire come fatto ineluttabile il suo stato di precarietà occupazionale”.

 

Caffè è stato un grande economista, avendo contribuito decisamente all’affermazione della politica economica come disciplina autonoma, ancorata rigorosamente alla teoria economica; solo allora, infatti, si può affermare “una visione del mondo che affida alla responsabilità dell’uomo le possibilità del miglioramento sociale”.

 

Egli è stato,inoltre, un grande intellettuale, non solo per la ricchezza della sua cultura umanistica e musicale, ma perché portatore di una visione complessiva di “un più alto tipo di società”. Egli era del tutto consapevole della complessità del capitalismo moderno, dominato dalle imprese e dagli intermediari finanziari transnazionali; di fronte a tale complessità, la sua scelta era peraltro quella dell’”impenitente tappabuchi” rispetto all’attesa, forse velleitaria, di molti per “una trasformazione radicale del sistema”.

 
Caffè era dunque portatore di una concezione riformista, i cui punti fermi sono stati: “una politica economica che non escluda, tra gli strumenti da essa utilizzabili, i controlli condizionatori delle scelte individuali; che consideri irrinunciabili gli obiettivi di egualitarismo e di assistenza che si riassumono abitualmente nell'espressione dello Stato garante del benessere sociale; che affidi all'intervento pubblico una funzione fondamentale nella condotta economica”.

 

Caffè, più di altri, ha conseguentemente saputo tenere ferma la direzione di marcia, anche quando il travolgente successo del neo-liberismo, a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, ha determinato un forte sbandamento politico e culturale tra le forze riformiste. In quel periodo egli fu tra i pochi, se non il solo, a mettere vigorosamente in evidenza che il neo-liberismo, almeno per quanto riguardava il contributo degli economisti, riproponeva una datata concezione apologetica dell’istituzione “mercato”, che l’opera di grandi studiosi, nonché l’esperienza storica, avevano, secondo lui, definitivamente ridimensionato se non liquidato.

 

Anche grazie ai compiti istituzionali di un certo rilevo da lui ricoperti, egli aveva acquisito una conoscenza profonda del capitalismo reale, per il quale, a suo avviso, valeva l’illuminante frase di Keynes: “l’incapacità di provvedere un’occupazione piena e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e dei redditi sono i difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo”. Per quanto riguarda la questione dell’occupazione il capitalismo storico è diverso da quello ideale, rilevava Caffè, condividendo l’affermazione di Joan Robinson, la quale, in sintonia con Kalecki, sottolineava che “l'economia moderna si è dimostrata incapace di sviluppare le istituzioni politiche e sociali, sul piano interno come su quello internazionale, che sono necessarie per rendere un durevole pieno impiego compatibile con il capitalismo”.

 

Più personale è stato il suo impegno sul tema dell’equità, per il quale, già nel 1945, scriveva che “Mantenere su due piani distinti il problema tecnico della produzione e quello sociale dell’equa distribuzione significa praticamente lasciare insoluto questo ultimo”.

 
Recentemente hanno ritrovato credito, in importanti sedi, le posizioni ripetutamente espresse da Caffè; ad esempio, in un documento della World Bank del 2005, si può leggere, tra l’altro che “una maggiore equità può portare ad un più completo ed efficiente uso delle risorse di una nazione”. In un numero dell’Economist dell’ottobre 2012, inoltre, si può leggere che “ricerche svolte da economisti del Fondo Monetario Internazionale suggeriscono che la diseguaglianza dei redditi rallenta lo sviluppo, causa crisi finanziarie e indebolisce la domanda”.

 

Ciò non significava disconoscere l’importanza degli interessi in gioco e delle idee che li alimentano; non a caso, in uno dei suoi articoli più apprezzati, “La strategia dell’allarmismo economico”, egli segnalava la capacità dei ceti dominanti di condizionare la spinta emancipatrice dei ceti più deboli, facendo ricorso a toni apocalittici ogniqualvolta si profili il serio tentativo di eliminare gli spigoli più clamorosi in fatto di equità

 

Viene da chiedersi quale sarebbe oggi lo stato d'animo di Caffè, mentre alcuni dei suoi messaggi più significativi non sembrano trovare grande ascolto: l'enfasi da porre più sugli immensi vuoti da colmare che sui limitati eccessi da eliminare nell'operato del Welfare State; il richiamo alla funzione di “occupatore di ultima istanza” che il potere pubblico dovrebbe assolvere; il rischio, già segnalato da John Kenneth Galbraith, della “dissoluzione del sindacato” nella economia moderna, nella quale c’è, invece, da riconoscere “il ruolo fondamentale che le masse operaie organizzate svolgono attualmente a potente sostegno delle isituzioni democratiche in tempi difficili”; “problema cruciale dei nostri tempi è proprio quello del superamento della struttura “monarchica” dell’impresa”; “Oggi ci si trastulla nominalisticamente alla ricerca di un “nuovo modello di sviluppo”. E si continua ad ignorare che esso. nelle sue ispirazioni ideali, è racchiuso nella Costituzione”.

 
Qualche consolazione, come gli è capitato durante la vita, potrebbe trarre dagli accenti critici, nei confronti dell'operato del capitalismo reale, che provengono dal solidarismo cristiano, proprio mentre sembra , invece, smarrirsi, nella cultura laica a lui più congeniale, non solo la capacità corrosiva ma le “aspirazioni che si identificano in quel tanto di socialismo che appare realizzabile nel contesto del capitalismo conflittuale con il quale è tuttora necessario convivere”.

 

E’ a questa concezione economico‑sociale progressista, come la definisce Caffè stesso, che approda il suo lavoro intellettuale; in essa si realizza una mirabile sintesi di etica, economia e storia, che mi piace definire il “riformismo radicale” di Caffè. Questa definizione mi permette di individuare letteralmente le radici, appunto, del suo pensiero, la sua bussola culturale, insidiata dalle ventate neo-liberiste, da un lato, e da quelle “rivoluzionarie”, dall’altro; egli scrive: “Essendo generalmente uomo di buone letture, il riformista conosce perfettamente quali lontane radici abbia l’ostilità a ogni intervento mirante a creare istituzioni che possano migliorare le cose”. Ed è, ispirandosi a tale riformismo di Caffè, e magari a quello di molti altri, che si può ancora, a mio avviso, affrontare il futuro, con “l'ottimismo della volonta”, per verificare il suo convincimento, si può dire keynesiano, “del prevalere inevitabile delle idee sugli interessi costituiti”.

 
Resterebbe da compiere l’ultimo metro del mio percorso, dichiarando se per me Federico Caffè possa essere considerato un “economista di sinistra”. Qualcuno prima di me ha affrontato il punto con esiti diversi; naturalmente ho una mia idea in proposito ma, in una sede accademica come questa, mi sarei sentito in dovere di sostenerla con delle buone carte a cominciare dal conciso e lucido saggio di Bobbio di alcuni anni fa. Ciò avrebbe richiesto uno spazio maggiore per il mio intervento; bisognerà dunque attendere un’altra occasione.

                           

(Questo articolo è una sintesi dell’intervento al convegno per la celebrazione del centenario della nascita di Federico Caffè organizzato da Banca d’Italia e Università Roma Tre a Roma, il 12 novembre 2014)

Mercoledì, 10. Dicembre 2014
 

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