A sinistra l’euro diventa un dilemma

Il dibattito sulla possibilità di abbandonare la moneta unica comuncia ad accendersi anche nell’area della sinistra Pd: una sua nuova rivista ospita vari interventi. Ma un problema ancora più decisivo sarebbe un vero cambio di rotta della politica economica

La tesi che l’Italia debba uscire dall’euro per non subire danni irreparabili non ha avuto fino ad oggi molti sostenitori nel nostro paese. A livello politico due partiti di opposizione, 5Stelle (ma con una posizione altalenante e non del tutto chiara) e la Lega, alla ricerca di uno spazio politico dopo essere arrivata a un passo dalla scomparsa e sull’esempio del Front National di Marine Le Pen, con il quale è alleata in Europa. Tra gli economisti, pochi e per lo più eterodossi, con la ragguardevole eccezione di Paolo Savona che è stato forse il primo a porre con decisione il problema. La maggior parte degli economisti si è piuttosto dedicata a proporre soluzioni di politica economica che fossero in grado di far superare all’Europa questa crisi che sembra infinita.

 
Da qualche tempo, però, l’ipotesi di abbandono della moneta unica comincia ad essere discussa dall’area che fa capo alla sinistra Pd o ad essa contigua. Il primo politico di questa collocazione ad uscire allo scoperto è stato Stefano Fassina, che di fronte all’assenza di qualsiasi segno di un cambiamento di rotta delle politiche ha cominciato ad affermare che è necessario considerare l’alternativa di lavorare per un’uscita dall’euro concordata tra i paesi membri, in modo da ridurre al minimo i rischi che un passo del genere comporta e che sarebbero invece aggravati se si arrivasse a quel passaggio in maniera forzata, sotto i colpi di una nuova e incontrollabile crisi. Ora la discussione si allarga, proposta dal sito Idee controluce. Si tratta di una rivista on line nata da poco e diretta da due giornalisti che avevano incarichi di primo piano nel Pd pre-renziano, Claudio Sardo (direttore de L’Unità) e Chiara Geloni (direttrice di Youdem, la web-tv del partito). Gli interventi finora pubblicati sono di Massimo D’Antoni, Vladimiro Giacchè, Salvatore Biasco e Claudio Sardo, a cui ne è stato aggiunto un altro di Vincenzo Visco (durissimo verso la Germania) uscito sul Sole24Ore. D’Antoni e Giacchè  non escludono che si arrivi ad un’uscita, Visco vede una fine quasi inevitabile se non si cambia rotta. Per Biasco, invece, l’alternativa non esiste: la rottura dell’euro provocherebbe esiti catastrofici.
 
Che sia opportuno ragionare su “un piano B” ci sono pochi dubbi, da parte mia lo sostengo da molto tempo. E’ altrettanto certo che ci si muove sul filo del rasoio, perché se si facesse strada sui mercati la convinzione che l’euro può finire assisteremmo a una nuova crisi dei debiti pubblici e a una incontrollabile fuga di capitali, come giustamente fa notare Biasco. E però, siccome la crisi può essere scatenata da un qualsiasi altro motivo, anche del tutto indipendente dalle nostre azioni, arrivarci impreparati sarebbe da irresponsabili. Ricordiamo dunque in quale quadro ci stiamo muovendo e quali possibilità abbiamo di fronte.

 

Dove siamo e come ci siamo arrivati

Le soluzioni capaci di imprimere una svolta all’economia europea, impantanata tra stagnazione e depressione, passano inevitabilmente per il livello unitario: nessun paese può riuscire da solo a rovesciare l’andamento della congiuntura, neanche la Germania che ha l’economia più grande dell’eurozona.

 
Questo non significa che le politiche all’interno dei singoli paesi siano ininfluenti. Lo vediamo dai risultati  in termini di crescita, che è più stentata – se non negativa, come in Italia – dove è stata più praticata l’austerità dei conti pubblici, e migliore per quei paesi che hanno sostenuto l’economia con deficit di bilancio, come la Spagna (o, fuori dall’euro, il Regno Unito).
 
Ma le politiche dei singoli paesi possono servire a farli galleggiare, risultato peraltro assolutamente non disprezzabile, ma non a risolvere il problema della stagnazione europea, provocata da una criminale perseveranza nelle politiche di austerità e dall’insistenza sull’illusione che l’aumento dell’export sia sufficiente a farci uscire dai guai. Inutile chiedersi se i sostenitori di questa linea ci credano veramente: qualcuno magari sì, ma ciò che più conta è che è funzionale a una politica reazionaria di compressione dei diritti dei lavoratori e progressivo smantellamento dello Stato sociale.

Questa linea politica cara alle tecnocrazie conservatrici si trova più o meno casualmente in sintonia con gli interessi del paese dominante in Europa, la Germania. L’”ideologia tedesca” non è precisamente omogenea a quella liberista. Quest’ultima mira per esempio a distruggere i sindacati, che invece in Germania hanno un ruolo fondamentale; ha il feticcio della concorrenza, che i tedeschi non mostrano di perseguire a tutti i costi e in tutti i settori; aborrisce l’intervento pubblico, che la Germania invece non disdegna. Insomma tra le due visioni dell’economia ci sono differenze importanti.

 
E’ accaduto però che la Germania, un po’ per suo merito – perché è riuscita ad ottenere la compressione dei salari al momento opportuno – e un po’ per demerito dei paesi mediterranei, che hanno sprecato la prima fase dell’euro – relativamente tranquilla e con tassi contenuti: grazie Berlusconi! – si sia trovata in una situazione di forza, sfruttando la debolezza della moneta unica provocata dai paesi in difficoltà per aumentare enormemente il suo export. Per di più, nella fase acuta della crisi, quando i mercati scommettevano sulla rottura dell’euro, se n’è avvantaggiata doppiamente, grazie al flusso di capitali che si riversavano sui suoi Bund – che, in quell’ipotesi, si sarebbero rivalutati generando guadagni per gli investitori – senza subire un apprezzamento del suo cambio e pagando interessi addirittura negativi (con tutto ciò che questo comporta sia per la spesa pubblica di servizio del debito, sia di costo del denaro per imprese), mentre ai paesi della periferia accadeva il contrario, aggravando la loro già difficile situazione.
 
In tutta questa vicenda i governanti tedeschi hanno mostrato un incredibile egoismo, un’arroganza senza pari e una interpretazione delle regole degna di un sovrano medievale: inflessibili sui “doveri” degli altri, incuranti verso i propri. In parole povere, la Germania ha fatto valere la legge del più forte, come quando ha rifiutato la parte di responsabilità che spetta al creditore, e non solo al debitore; e si è fatta beffe della regola, che pure aveva approvato, sull’eccesso di surplus dei conti con l’estero. Anche la crisi greca, che ha avuto un effetto determinante sulle aspettative di rottura dell’euro, è stata gestita in funzione degli interessi delle banche tedesche (forti creditrici della Grecia) e non per risolvere il problema al più presto e nel modo migliore. Basti pensare che il costo per i cosiddetti aiuti ad Atene ha ormai superato il doppio di quanto sarebbe servito a coprire l’intero debito pubblico greco, che era allora intorno ai 300 miliardi, una cifra non lontana dal valore del suo Pil. Oggi, dopo anni di “cura”, il Pil greco è crollato di un quarto e il rapporto col debito veleggia intorno al 175%.

Gli aiuti serviti a permettere alle banche tedesche (e francesi) di rientrare dai crediti, aiuti a cui hanno contribuito tutti i paesi dell’euro, anche quelli in difficoltà, sono stati fatti passare come un generoso soccorso ai greci spreconi, così come i contributi ai Fondi salva-Stati (pagati da tutti anche quelli), come una sgradevole necessità provocata dal comportamento dissennato di quei paesi che per questo si trovavano sotto attacco. Dunque per loro colpa, e non per la colpa tedesca di aver imposto una gestione egoistica e dissennata della crisi greca, che come detto aveva scatenato quella generalizzata.

 
L’opinione pubblica tedesca è stata dunque convinta che il loro virtuoso paese sia stato costretto a usare i loro soldi per salvare i paesi periferici spreconi. E che quindi nemmeno un altro euro si dovesse mettere in campo prima che costoro avessero espiato i propri peccati. Dunque niente mutualizzazione del debito, niente risorse per rilanciare l’economia europea, nessuna soluzione che non fosse punitiva nei confronti dei paesi in difficoltà ma, soprattutto, che potesse ridurre gli enormi vantaggi derivanti alla Germania da questa situazione.
 
Se si pensa a come è stata condotta la riunificazione con l’Est ci si trova di fronte a una differenza abissale. Ci fu la decisione politica di cambiare il marco dell’est alla pari con quello dell’ovest, un vero e proprio regalo che provocò le dimissioni del presidente della Bundesbank Karl Otto Poehl. Negli anni successivi furono destinate all’est più risorse finanziare di quelle che l’Italia aveva impiegato in oltre trent’anni di aiuti al Mezzogiorno. Ma era quello che serviva per riunirsi ai “fratelli separati”. Questo la dice lunga sull’europeismo dell’attuale classe dirigente tedesca. Gli altri europei sono certo considerati “separati”, ma di sicuro non “fratelli”.
 
Probabilmente, però, la Germania non sarebbe riuscita ad imporre la sua dissennata politica di austerità – e comunque non ancora oggi, a dispetto dei risultati catastrofici che ha provocato – se non ci fosse stata quella infausta coincidenza con gli obiettivi dell’ideologia liberista dominante, che ha visto nella crisi l’occasione per distruggere definitivamente il tanto odiato modello europeo, basato sullo Stato sociale, la presenza attiva dei corpi intermedi (come i sindacati), la non demonizzazione dell’intervento pubblico in economia (che peraltro gli Stati anglosassoni che affermano di adottare il modello liberista praticano pragmaticamente senza risparmio, dove e quando lo ritengono necessario).
 
Sulla base di queste idee si sono formate almeno due generazioni di economisti, che ricoprono la maggior parte dei posti nelle tecnostrutture che contano: dalla Commissione europea alla Bce al Fondo monetario internazionale (la famosa Troika che tanta parte ha avuto nella gestione della crisi). E queste idee sono diventate egemoniche anche tra i politici, anche quelli dei partiti che si definiscono di sinistra. Forse è vero che destra e sinistra sono ormai termini obsoleti, ma nel senso che la prima ha conquistato la seconda ben al di là dei risultati elettorali.

Tutto questo nel quadro di una globalizzazione che ha messo sotto ricatto i lavoratori dei paesi di più antica industrializzazione, di una finanziarizzazione incontrollata che ha messo sotto ricatto gli Stati, della definitiva affermazione di protagonisti come le mega-corporation, i cui bilanci sono più grandi di quelli della maggior parte dei paesi sovrani del mondo e il cui potere è grande di conseguenza.

 

Una prima conclusione

Questa lunga premessa serve a trarre una prima conclusione. L’euro non è di per sé negativo e distruttivo nei confronti dei paesi europei oggi in difficoltà. Ad essere distruttiva è la politica europea. Se domani miracolosamente l’Unione decidesse la mutualizzazione dei debiti pubblici e una massicia emissione di Eurobond per rilanciare gli investimenti, cancellasse le regole demenziali su deficit, riduzione del debito e pareggio di bilancio, accettasse l’ipotesi di trasferimenti fiscali interni all’area (cioè che, quando è necessario, i paesi più forti aiutano quelli più deboli, come avviene tra regioni di uno stesso Stato), non limitasse l’azione della Bce, la crisi finirebbe rapidamente, l’euro non sarebbe più un problema.

 
L’obiezione è ovvia: questo non accadrà. E’ vero, ma bisognerebbe aggiungere: “nelle attuali condizioni politiche”. Che non è detto che siano immutabili. Le forze di opposizione a questa politica sono in forte crescita in tutta Europa. Non sono omogenee, e questo permette ai moderati di destra e di sinistra (chiamiamoli così per comodità: i Popolari, i Socialisti e i Liberali) di ottenere ancora la maggioranza facendo blocco. Ma domani potrebbe non bastare. Secondo i più recenti sondaggi in Spagna Podemos è il primo partito, e il Psoe sembra disponibile ad una eventuale coalizione di governo. Syriza è in testa in Grecia e alle ultime elezioni amministrative che hanno coinvolto la metà della popolazione si è visto che potrebbe ottenere addirittura la maggioranza assoluta. In Francia è in testa il Front National, e Marine Le Pen potrebbe essere il prossimo presidente, In Italia 5Stelle e Lega valgono circa il 30%, ma ad essere più o meno saldamente omogeneo alla dirigenza europea è solo il Pd con il contorno di qualche partitino. Fuori dall’euro l’Ukip insidia il governo inglese.

 

Ma il tempo stringe

Un mutamento delle condizioni politiche dunque non è impossibile. Ma è improbabile che sia domani. Domani, invece, potrebbe scatenarsi un’altra fase acuta della crisi. Per questo il “piano B” è necessario. Ma anche se non arriverà un’altra tempesta ogni giorno che passa in queste condizioni continua a deteriorare la nostra economia, le imprese continuano a chiudere, la disoccupazione rimane a livelli insopportabili, il debito pubblico continua ad aumentare rispetto al Pil, perché il Pil non cresce e non crescerà. Le ultime previsioni Ocse hanno già ridotto allo 0,2% la stima per il 2015, un terzo del pur misero 0,6 dei nostri documenti economici. Verosimilmente ci avviamo al quarto anno consecutivo di recessione e il governo è impegnato essenzialmente in giochi di illusionismo come gli 80 euro o il Tfr in busta paga.

 
Nel documento programmatico consegnato alla Commissione Ue il ministro Pier Carlo Padoan si era finalmente deciso a contestare i metodi di calcolo in base ai quali dobbiamo continuare a ridurre la spesa, strangolando ancor di più l’economia. E’ finita con una trattativa che ha ottenuto uno “sconto” dello zero-virgola di Pil. Incredibile: è come se andassi a comprare un’auto, il venditore mi presentasse il conto e io mi accorgessi che ha sbagliato per eccesso, e poi accettassi di pagare non il prezzo corretto, ma solo un po’ meno di quello che il venditore fraudolento aveva richiesto. Il bello è che la stessa Commissione, in un suo studio, ha concluso che quella metodologia è inaffidabile. Poi ha messo lo studio in un cassetto e ha continuato a usarla come se niente fosse. Devono essere tutti impazziti.
 
In queste condizioni, con questa classe dirigente italiana ed europea, è davvero difficile ipotizzare una via d’uscita. D’Antoni osserva che non ci sono i rapporti di forza per cambiare la rotta della politica europea. Purtroppo è vero, ma non è tutto: a quanto sembra non ci sono nemmeno per cambiare la politica italiana. E quindi, figuriamoci se si può spingerla verso una eventuale uscita dall’euro. Ma se si riuscisse davvero a condizionarla, la politica italiana, prima di quella scelta comunque rischiosa si potrebbe fare altro. Perché se avessimo un governo capace di farsi rispettare in Europa i mezzi per non sottostare ai diktat europei li troverebbe. In modo sotterraneo come la Francia, che se ne impipa del deficit al 3% e ha “inspiegabilmente” ottenuto il via libera dalla Commissione, che invece si è accanita contro di noi. O in modo clamoroso come fece la signora Thatcher quando pretese di farsi ridurre la quota da versare al bilancio comunitario: “I want my money back!”, ricordate? La Lady di ferro fece in modo di bloccare qualsiasi decisione finché non ottenne quello che voleva. Evidentemente i mezzi procedurali esistono, ma bisogna avere la capacità e il coraggio di sfruttarli fino in fondo.
 
Un “mr. Thatcher” di sinistra non solo impedirebbe di danneggiare ulteriormente l’Italia, ma probabilmente potrebbe riuscire a chiudere nell’angolo gli egoismi tedeschi e a raccogliere una maggioranza di paesi favorevole a un cambio non solo di linea, ma anche dell’architettura europea che sta distruggendo l’Unione, visto che ormai i paesi in difficoltà sono più di quelli che ancora si salvano. Purtroppo di un personaggio del genere non si vedono tracce, e se qualcuno aveva dubbi il semestre di presidenza italiana, ormai agli sgoccioli, non può che averglieli tolti.

 

E allora?

E dunque, che cosa si può ragionevolmente fare? Non moltissimo, se questa è la situazione. Magari studiare strade come quella tentata con il referendum “anti-austerità”, che non è riuscito ad arrivare in porto, ma era una buona idea, anche se non risolutiva. Ci sarà nei trattati o negli statuti delle istituzioni qualche cosa da impugnare, investendo magari la Corte di giustizia europea? Possibile che solo la Germania riesca a farlo per i suoi scopi? E poi, certo, continuare a denunciare l’assurdità di questa politica, sperando che l’opinione pubblica arrivi a convincersene e smetta di seguire i pifferai che la portano ad affogare.

Giovedì, 13. Novembre 2014
 

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