Sul Tfr un pasticcio inutile

La facoltà di averlo in busta paga si paga con un forte aumento della tassazione, quindi probabilmente sarà scelta da pochi e non darà gettito né avrà effetti espansivi. Per di più l’aumento di tasse su Fondi e casse private smentisce l’accordo raggiunto nel giugno scorso con il ministro Padoan sugli investimenti. La previdenza complementare ha bisogno di una revisione, ma queste decisioni fanno solo danni

L’apparire delle prime bozze della legge di stabilità ha prodotto alcune sorprese in merito agli interventi sul Tfr e a quelli sulla tassazione dei rendimenti dei Fondi pensione e delle casse previdenziali private. Per quello che concerne il Tfr la sorpresa sta nell’applicazione della tassazione ordinaria alle quote di Tfr anticipate in busta paga. Questa soluzione sembrava esclusa, vedi, ad esempio, dichiarazioni del responsabile economico del Pd Filippo Taddei. Invece è stata adottata. Assieme alla volontarietà della misura azzera praticamente qualsiasi ipotesi di impatto macroeconomico e limita al massimo le entrate fiscali prodotte dalla misura stessa.

 

Il Tfr, e gli anticipi fino ad oggi previsti, sono soggetti a tassazione separata, con una aliquota ricavata da quelle dell’Irpef attraverso un calcolo che esclude dalla tassazione la rivalutazione annua e considera gli anni di anzianità. L’aliquota effettiva di tassazione del Tfr è inferiore a quella marginale del lavoratore a cui sarà, invece, sottoposta la quota di Tfr in busta paga in seguito al provvedimento governativo. L’aliquota di tassazione più bassa applicata al Tfr è del 23% e risulta sempre inferiore a quella marginale effettiva dei lavoratori a partire da un reddito pari alla quota esente di 8.000 euro. Contrariamente a quanto hanno scritto alcuni giornali, e anche i consulenti del lavoro, anche per i lavoratori con reddito compreso tra la quota esente e i 15.000 euro la tassazione peggiora dato che l’aliquota marginale effettiva a cui sarà sottoposto il Tfr in busta paga sarà del 27,5%, tenendo conto della diminuzione della detrazione per effetto dell’aumento di imponibile.

 

Pochi dovrebbero essere, quindi, i lavoratori che opteranno per questa scelta, salvo forse quelli già disposti a rivolgersi a un cosiddetto cravattaro. Ora potranno scegliere tra uno pubblico e uno privato. Ininfluente oltre che nell’impatto macroeconomico lo sarà anche dal punto di vista delle entrate. Siamo, quindi, ben lontani da quanto prospettato da Renzi nell’annunciare il provvedimento e, alla luce dell’articolato, appare una misura sostanzialmente inutile.

 

Sorpresa tra gli addetti ai lavori ha suscitato anche l’aumento di tassazione sui rendimenti dei Fondi pensione e su quelli delle casse previdenziali private. La maggiore sorpresa deriva dal fatto che Fondi e casse avevano raggiunto con il ministro Padoan un accordo sulla creazione di un fondo alimentato con risorse provenienti da Fondi e casse destinato ad investire, tramite una Sgr, in settori indicati dal governo, ma soggetti ad esplicite linee guida indicate da Fondi e casse. Era una risposta positiva al problema da tempo evidenziato sulla tipologia prevalente di investimento delle risorse di Fondi e casse rivolta prevalentemente a titoli di Stato e a Borse estere, con sottrazione di liquidità alle imprese italiane. In cambio vi era la richiesta di una diminuzione della tassazione su interessi e rendite di Fondi e casse. Evidente l’assoluta sorpresa a fronte sia dell’assenza di un sia pur minimo riferimento al fondo sia all’aumento di tassazione.

 

Appare evidente che Palazzo Chigi e Tesoro si siano mossi ognuno per proprio conto. Quello che non appare chiaro alla lettura delle prime bozze è il disegno nel quale inquadrare questo aumento di tassazione. Se unito all’aumento di tassazione della rivalutazione del Tfr presente nelle bozze stesse, può sembrare il classico provvedimento della Ragioneria generale volto a rastrellare entrate laddove è possibile. La dichiarazione di Padoan che presenta l’aumento come una parificazione alle aliquote medie europee, ancorché discutibile, suona come una conferma di queste ipotesi. Alcuni articoli di collaboratori di Palazzo Chigi lasciano invece pensare anche, o solo, ad una valutazione diversa da quella corrente, e di fatto non positiva, sulla previdenza complementare.

 

Possiamo riassumere questa posizione con alcune affermazioni espresse da Pietro Reichlin sulla Voce:  lasciare il Tfr in busta paga dà al lavoratore un’opportunità in più rispetto a quella che ha ora;  il finanziamento alle piccole imprese non può essere messo a carico dei lavoratori; il Tfr non è un’indennità a vantaggio del lavoratore, ma il corrispettivo di un prestito del lavoratore all’azienda; l’ammontare di risparmio previdenziale forzoso in Italia è superiore a quello della gran parte dei paesi a noi simili; secondo stime recenti, i tassi di sostituzione medi (rapporto tra prestazioni e ultima retribuzione) al 2014, per un lavoratore dipendente di 65 anni con 40 anni di contributi, si aggira intorno al 70%, contro il 48% della Germania ed il 42% della Svezia; se teniamo conto, poi, della previdenza complementare (Tfr e Fondi pensione), questo rapporto sale al 90% per l’Italia, contro il 64% della Germania ed il 54% della Svezia; la previdenza complementare non può essere creata in modo forzoso; gli strumenti assicurativi e previdenziali sono spesso destinati a scopi per i quali non erano stati disegnati in origine, ad esempio il Tfr come finanziamento alle imprese e previdenza complementare..

 

Queste asserzioni, se assunte da Palazzo Chigi, delineano il quadro all’interno del quale le norme su Tfr e Fondi sono state pensate. E’ chiaro che rispetto a questi assunti la norma sul Tfr è molto ridimensionata, presumibilmente a fronte delle difficoltà incontrate con Abi e piccole e medie imprese. Si può anche dire che il Tfr ha assunto impropriamente la funzione di finanziamento alle imprese, ma impropriamente o meno il dato è quello. Ci ha sbattuto il naso nel 2007 Tommaso Padoa Schioppa, ora è toccato a Renzi. Intervento quindi drasticamente ridimensionato, ma che potrebbe solo essere stato rinviato. La norma prevede che l’anticipo del Tfr maturato nell’anno abbia una durata triennale e prevede anche che l’anticipo non è erogato annualmente, ma mensilmente. L’anticipo mensile si traduce non in una somma messa a disposizione per un evento particolare, come le attuali anticipazioni, ma in un incremento del reddito mensile a cui, per gli eventuali beneficiari, potrà essere difficile rinunciare. Se il loro numero, contrariamente ad ogni previsione, dovesse essere non limitato, la spinta e l’occasione per un rinnovo e un allargamento della norma sarebbe forte.

 

Le affermazioni fatte da Reichlin sulla previdenza complementare sono discutibili, ma non possono essere ignorate. Che la contribuzione previdenziale nel nostro paese sia alta non vi è alcun dubbio, soprattutto se sommiamo al 33% di contribuzione pubblica quella destinata alla previdenza complementare (6,91% del Tfr più un 2/3% mediamente di contribuzione del lavoratore e del datore di lavoro). Una contribuzione pensionistica che supera il 40% è con tutta evidenza eccessiva.

 

Più discutibile l’affermazione che i tassi di sostituzione delle previdenza pubblica per un lavoratore dipendente di 65 anni con 40 anni di contributi siano oggi stimabili attorno al 70%. Se questo fosse vero renderebbe la previdenza integrativa poco giustificabile o comunque renderebbe poco giustificabili i vantaggi fiscali di cui gode. Queste stime di copertura pensionistica sono state indicate da Stefano Patriarca dopo la riforma Fornero e fatte proprie anche dalla Rgs nelle sue proiezioni annuali sul sistema pensionistico italiano. Rispetto a tutte le previsioni precedenti, decisamente meno ottimistiche, raggiungono questi valori assumendo il forte innalzamento dell’età pensionabile prodotto dalla riforma Fornero, con il conseguente aumento del montante contributivo e dei coefficienti di calcolo della pensione. Il punto debole di questo ragionamento è quello di prendere a riferimento il lavoratore regolare con contribuzione continua. E’ lo stesso errore fatto con le riforme degli anni novanta, errore peraltro allora più comprensibile: questa tipologia di lavoratore è destinata ad essere minoritaria e i tassi di sostituzione non potranno essere quelli indicati per molti lavoratori.

 

Il problema, tuttavia, non è risolto dalla previdenza integrativa perché i lavoratori con reddito basso e/o non continuo, non hanno le risorse per dotarsi di una pensione complementare. Sotto questo aspetto i Fondi pensione corrono il rischio di essere solo uno strumento di rafforzamento della pensione pubblica dei lavoratori “forti”, non giustificando in questo modo i vantaggi di tassazione di cui godono. Questa ultima affermazione è rafforzata poi dal fatto che l’attuale regime di tassazione dei contributi (esenzione) e delle prestazioni (tassazione separata fortemente inferiore a quella marginale) è costruito in modo da avvantaggiare i redditi via via maggiori, dando poco ai redditi bassi.

 

Problemi, quindi, nella previdenza complementare ce ne sono, sia di ordine generale, sia di ordine particolare, penso ad esempio all’assoluta incapacità delle parti sociali di procedere ad una riduzione del numero dei Fondi esistenti per realizzare necessarie economie di scala e al problema della capacità della Covip ad operare la funzione della sorveglianza.

 

Ma se questo è vero, e forte è il ritardo del sindacato ad una profonda riflessione su questi temi, altrettanto vero è che l’intervento del governo non affronta complessivamente il problema, non opera con un disegno chiaro sui due versanti, Tfr e previdenza complementare, ma interviene con misure parziali che non risolvono alcun problema e che, in buona misura, contribuiscono solo a far danni. Il tutto all’insegna di molta improvvisazione e, per quello che si è riuscito a capire, anche di molta ignoranza in merito.   

Venerdì, 24. Ottobre 2014
 

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