Sul lavoro la sinistra fa la destra

Ripercorriamo la storia recente che ha portato a elaborare un Jobs act che sembra figlio del pensiero unico. Eppure un progetto alternativo esiste, il Pd l’ha approvato appena tre anni fa ed era nel programma su cui sono stati eletti gli attuali parlamentari. Bisogna tornare a quello: e realizzarlo, prima che sia troppo tardi

Che cosa impedisce alla sinistra italiana di avanzare una sua proposta di riforma del lavoro?

Perché mai da quindici anni a questa parte ha solo giocato in difesa, avendo come obiettivo massimo la limitazione del danno? Per undici di questi anni la destra è stata al governo e questo indubbiamente fornisce una parte della risposta. Ma non la parte più importante, se la risposta deve servire per l'oggi, guardando al futuro. Se deve servire anche a dare una spiegazione al lungo predominio della destra. Vediamo perché.

Riavvolgiamo la storia dall'inizio. Quindici anni fa la sinistra aveva prodotto una legge delega: non solo un progetto, come ora, il Jobs act, ma una legge, approvata dal Parlamento (144/99) con tanto di scadenze certe. Con alle spalle un accordo (il “Patto di Natale”) raggiunto con tutte le componenti, grandi e piccole, delle rappresentanze di interessi, imprenditoriali e sindacali, fortemente voluto dal neo-insediato governo D'Alema, preceduto a sua volta da quello raggiunto dal governo Prodi (il Patto per il Lavoro) da cui era scaturita una prima legge di riforma (196/97).

C'erano dunque le premesse. Un governo con una maggioranza solida (numericamente) e un leader forte, un ampio consenso delle parti sociali. E c'erano alcune idee, enunciate in modo non meno preciso, come indirizzi per la delega, di quanto non lo siano nella legge ora in discussione. Invece dopo due anni, nel 2001, si è andati a votare senza che quella delega avesse prodotto alcun atto concreto. E ha vinto la destra.

 

C'erano state anche allora pressioni dall'Europa? Di che genere?

 

La cornice europea in quegli anni era rappresentata da una “Strategia per l'Occupazione” che, avendo tra i suoi capisaldi anche la flessibilità (nell'organizzazione del lavoro, più che nei rapporti di lavoro), puntava a combinarla con una buona dose di tutele (la “flexicurity” di cui si è tanto parlato). Oggi può sembrare difficile da credersi, ma l'attuazione di quella strategia era affidata a un processo centrato sul dialogo sociale. Significa che, su come attuarlo, si confrontavano, in sede europea, sindacati e imprenditori e una volta raggiunto l'accordo la Commissione lo traduceva in Direttiva. In questo modo erano stati affrontati, giungendo ad altrettanti accordi e Direttive, temi come il lavoro a termine, il part time, il lavoro interinale. Ai singoli Paesi toccava poi tradurli in norme, attraverso leggi o contratti a seconda delle prassi adottate a livello nazionale. Non c'erano dunque troike, né altri poteri autoritari che dettassero condizioni dall'esterno; non arrivavano “lettere dall'Europa”. C'erano indicazioni, frutto di un processo cui le parti sociali del nostro Paese partecipavano attivamente e, per testimonianza diretta, con ruolo spesso determinante.

 

Non significa che non ci fossero contrasti e idee diverse. In particolare alcune associazioni imprenditoriali, dei paesi attraversati da una più forte ondata liberista ai tempi del binomio Thatcher-Reagan, opponevano una resistenza che si traduceva in leggi nazionali più favorevoli ai loro interessi rispetto all'orientamento europeo prevalente. E le stesse associazioni sindacali di quei paesi raccomandavano prudenza e “realismo”, preoccupate che i rapporti di forza nazionali potessero vanificare parti cruciali di quegli accordi. Il dubbio serpeggiava dunque anche a sinistra. Anche in Italia.

 

Di quegli anni di fine secolo ricorderei alcuni episodi in qualche modo rivelatori. 1) Il documento congiunto su lavoro e economia dei governi D'Alema e Blair (mentre a livello di Ministri del Lavoro si stilava una dichiarazione di intenti di altro tenore con la socialista francese Martine Aubry) ampiamente pervaso dalla prudenza e dal “realismo” di cui sopra. 2) In precedenza, lo scontro plateale nel congresso del Pds, inedito per la tradizione Pci da cui proveniva quel partito, tra D'Alema e Cofferati su flessibilità e ruolo del sindacato. 3) Il fallimento del negoziato per recepire la direttiva europea sul lavoro a termine, alla vigilia delle elezioni del 2001. Era successo che in Confindustria era stato eletto presidente D'Amato, piccolo industriale napoletano schierato apertamente con la destra; che le associazioni “minori” avevano scelto di allinearsi a Confindustria, comprese quelle considerate vicine alla sinistra (in Legacoop era subentrato, come presidente, l'attuale ministro Giuliano Poletti); che nella Cisl Raffaele Bonanni, allora responsabile del lavoro, avendo maggiore libertà di azione grazie all'arrivo al vertice, al posto di Sergio D'Antoni, di Savino Pezzotta a cui aveva assicurato un appoggio decisivo, aveva imposto la sua linea rompendo, in dirittura di arrivo, l'unità con la Cgil su cui si era fin lì basata l'ipotesi di accordo.

 

Mentre a sinistra si registrava questa incertezza di fondo sulla linea da seguire, la destra preparava le imminenti elezioni affidando l'elaborazione della sua versione della riforma del lavoro a un team insediato presso Confindustria, coordinato da uno studioso, Marco Biagi, che aveva in precedenza affiancato il ministro del governo Prodi, Tiziano Treu. Il prodotto di quella elaborazione, un Libro Bianco, fu poi la base di partenza di quella che sarebbe stata la legge 30/03. Una deregolazione del tutto priva di tutele, che fu dedicata alla memoria di Biagi - nel frattempo caduto, come è noto, sotto il piombo del terrorismo brigatista - pur avendo acquistato una fisionomia in cui egli stesso difficilmente si sarebbe riconosciuto per gli eccessi che conteneva. E, per completare il quadro, nel frattempo la trattativa sul tempo determinato si era conclusa con un accordo separato, il primo (cui ne sarebbero seguiti numerosi altri) senza la Cgil, su un testo sensibilmente diverso da quello in precedenza concordato. Il cambiamento sostanziale stava nel rendere molto più facile, per gli imprenditori, il ricorso a questa forma di contratto precario a scapito della forma standard, quella che le direttive europee avevano definito “normale”, a tempo indeterminato.

 

Col tempo la situazione è notevolmente peggiorata. Non solo per la sinistra ma per il Paese. In particolare per i giovani, le donne, gli over 50, i meridionali. L'economia è andata avanti a rilento (gli ultimi anni del secolo scorso erano stati gli ultimi il cui la crescita del Pil aveva superato il 2%) per arrivare all'attuale declino; l'occupazione ristagnava, fino alla crescita della disoccupazione senza precedenti degli ultimi anni.

 

E' cambiato anche il contesto europeo. L'interpretazione della riforma del lavoro nei palazzi di Bruxelles appare ora condizionata dai dogmi del pensiero liberista-monetarista. E questo è diventato un ulteriore argomento per l'inerzia della sinistra: non si può procedere a una riforma che non si condivide. Ma, stando ai trattati, l'Ue non può andare oltre gli ammonimenti e i giudizi sugli effetti: di quelli i singoli Stati porteranno, in caso, la responsabilità, con l'onere della prova. Non può dunque essere l'interpretazione dominante nelle istituzioni sovranazionali un pretesto per non agire.

 

Si dirà, piuttosto, che non esiste un'interpretazione condivisa della riforma in un governo in cui siedono gli stessi protagonisti della politica portata avanti dalla destra dal 2001 in poi. Giusto. Non si può quindi tentare una rimozione dello scontro politico che ha segnato gli anni dal 1999 ad oggi, come se si trattasse di un passato remoto, da archiviare, o di una dialettica tutta rituale, su bandierine ideologiche. Parliamo di uno dei capisaldi di qualsiasi programma politico: ancora, e in modo sempre più incombente, del vero nodo da sciogliere per uscire dal gorgo della crisi.

Ma se un'interpretazione condivisa non è data, è almeno chiaro quale idea di riforma ha in testa la sinistra? La risposta, purtroppo, è negativa.

 

Eppure a sinistra si dovrebbe sapere che i cambiamenti rilevanti nell'andamento dell'occupazione, della disoccupazione giovanile, degli orari, dei redditi da lavoro (pro-capite e come quota parte della ricchezza nazionale), non sono stati l'effetto di fattori esterni ma hanno un nesso preciso con il cambiamento di rotta imposto dalla destra alle politiche del lavoro. Che l'andamento negativo dei fondamentali dell'economia (prodotto nazionale, produttività totale dei fattori) è connesso a sua volta strettamente con l'andamento di quelle variabili. E che è semplicemente paradossale che la destra, nell'estremo tentativo di difendere quella politica, attribuisca quell'andamento, piuttosto che alle politiche che ha portato avanti, a quella (minima) parte dei suoi programmi che la sinistra ha avuto la forza di ostacolare (libertà di licenziare senza neanche i vincoli minimi rimasti in vigore).

 

E' dunque alle incertezze della sinistra che occorre tornare. E da lì ripartire. Ai suoi contrasti interni? No, non è di questo che stiamo parlando. Basta pensare che una proposta di riforma alternativa in realtà esiste. Non serve neppure andare molto lontano nel tempo, si tratta dei documenti prodotti dal Pd (non dalla sinistra radicale o da movimenti “né-né”) non più di tre anni fa (Conferenza sul lavoro di Genova). I suoi punti salienti si ritrovano persino nel programma di Italia Bene Comune su cui si sono candidati e sono stati eletti gli attuali parlamentari del Pd.

 

Come mai, allora, la logica è stata fino adesso quella di limitare il danno, per il decreto Poletti - un'incomprensibile concessione alla destra, sia pure su aspetti marginali ma senza l'attenuante di qualche contropartita - e di prendere tempo, per il disegno di legge delega? La risposta è che alla sinistra (di cui il Pd si vanta di essere perno centrale in Italia e in Europa) è mancato il coraggio necessario a cambiare direzione. Il coraggio, soprattutto, di credere nelle proprie idee.

 

Perché non si può accantonare un tema come quello del lavoro in nome di un'intesa politica come quella (senza un'anima e senza un programma) su cui oggi si regge il governo. Fosse anche (la sostanza non cambia) per non dover fare ulteriori concessioni.

 

Non è la destra che fa la destra a dover preoccupare. E' il serpeggiare nella sinistra di posizioni come quelle di chi, per sminuire l'importanza e l'urgenza della riforma del lavoro, si rifugia nel ritornello che non è da quella che nascono posti di lavoro ma dalla voglia degli imprenditori di investire. Come se fosse la stessa cosa investire sulla Borsa, sui prodotti finanziari, o sul lavoro; sul lavoro in Italia o all'estero; su lavoro di infima qualità, come una postazione di call center o la distribuzione di volantini, ovvero ad alto contenuto innovativo, non replicabile.

 

Di questo si tratta, con la riforma del lavoro. Di scegliere se imboccare un'altra strada e investire sul valore del lavoro anziché sul suo impoverimento. Non farla, o aggiungere un'altra forma di contratto al vasto menù della precarietà, non cambia granché (chiamarlo poi “a tutele crescenti” è solo indice di scarso rispetto per la dignità dei destinatari potenziali). Per non dire dell'ultima trovata, una specie di overkilling, evocare il “modello tedesco” dei minijob come se se ne potessero creare di ancora più mini di quelli che già imperversano in Italia.

 

Eppure il menù alternativo è pronto, dal contratto davvero unico al sussidio universale per chi cerca lavoro; dall'abolizione delle tipologie (a partire dalla parasubordinazione) che alimentano il far west della precarietà al contrasto delle altre forme di elusione (contrattuale, contributiva, fiscale), dal rilancio della formazione, nel lavoro e fuori, al ritorno a un apprendistato degno di questo nome.

 

A sinistra ci si è rassegnati al pensiero (questo sì) unico? Ci deve spiegare l'Ocse che il problema italiano è la “trappola” della precarietà senza sbocchi? O la Germania, che riformare il lavoro senza il protagonismo delle rappresentanze sociali è impossibile? O Eurostat, che il nostro deficit di competitività è correlato strettamente al deficit di investimento in istruzione, formazione, ricerca, innovazione? Dovremmo essere piuttosto noi a spiegarlo. E a promettere, agli italiani così come agli europei, che faremo quanto è necessario. Senza rinviare per cercare mediazioni impossibili con chi la pensa diversamente.

 

Prima che sia troppo tardi.

Venerdì, 12. Settembre 2014
 

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