Ridurre l’orario aumenta la produttività

Servono naturalmente alcune condizioni, tra cui la massima disponibilità a turni e orari che permettano di sfruttare al massimo gli impianti e incentivi a investimenti in tecnologia. Il maggior costo sarebbe "pagato" dall'utilizzazione più efficiente e intensiva del fattore capitale. Le evidenze statistiche

La Fata Smemorina sembra aver stregato le menti di gazzettieri, pubblicisti, opinionisti, esperti, guru di ogni estrazione culturale e politica per quanto concerne i problemi e le soluzioni individuate, prima della Grande crisi che ha colpito l'Occidente e in particolare l'Europa, per quel che riguarda i rapporti fra produttività, livelli della tecnica e orari di lavoro.

    

Per oltre duecento anni - dall'inizio della rivoluzione industriale al primo decennio di questo secolo - l'orario di lavoro si era progressivamente ridotto, passando dalle 70 o addirittura 80 ore settimanali alle 36/40, almeno per i settori manifatturieri. Ma sin dall'inizio di quelle trasformazioni nei metodi di produzione che vennero chiamati "rivoluzione" si fece strada - prima confusamente con l'anarchismo luddista e poi più chiaramente in elaborazioni dottrinarie - il principio secondo il quale l'impiego di nuove tecnologie di processo e di nuovi sistemi organizzativi tendeva a produrre nel medio periodo una diminuzione delle ore di lavoro per unità di prodotto.

    

Alla vigilia della crisi si discuteva della introduzione, ad esempio negli impianti automobilistici, di formule del tipo del 7 per 4 (e cioè di 28 ore lavorative per 4 giorni settimanali). I costi aziendali globali per unità di prodotto non sarebbero aumentati, ma anzi diminuiti, perché - come si disse allora - i salari operai (il cui importo orario risultava aumentato e quello complessivo eguale o superiore) sarebbero stati "pagati" dall'utilizzazione più efficiente e intensiva del fattore capitale, utilizzazione che, per il gioco delle turnazioni, sarebbe stata pressoché totale (fatti salvi i tempi tecnici della manutenzione). Per inciso, nulla di paragonabile ai contratti di solidarietà che ripartiscono tra più individui un ridotto monte ore nelle crisi aziendali.

    

Tanto che si discuteva - ahimé con quanto rimpianto - di come sarebbe stato possibile riempire un così ampliato "tempo libero"... La sinistra operaistica, cogliendo il nocciolo del fenomeno in modo un po' semplicistico, coniò lo slogan del "lavorare meno per lavorare tutti": riducendo a pillola concettuale un fenomeno complesso che implica presupposti tecnici collegati a politiche industriali, pubbliche e private.

 

Una serie di dati recenti sembra confermare, comunque, la persistente validità del fenomeno anche nel quadro di una auspicabile ripresa economica. Essi provano l'esistenza di una "forbice" fra i tassi di sviluppo del Pil e quelli dell'occupazione.

    

Li riportiamo qui di seguito (nostra rielaborazione di dati Techné/Ocse). Nel 2014 l'indice del Pil giapponese (base 2010 eguale a 100) dovrebbe toccare il livello di 104.7; nello stesso anno e con la stessa base, l'occupazione raggiunge quota 101.4. La forbice risulta pari a 3.3. Per gli Stati Uniti (il cui livello tecnologico medio è probabilmente - a causa dell'ondata innovativa più recente - superiore a quello nipponico) abbiamo 109.0 per il Pil e 103.4 per l'occupazione, con una forbice di 5.6. L'Eurozona tocca 101.6 per il Pil, ma solo 98.0 per l'occupazione (e cioè un -2 rispetto al 2010) con una forbice di 3.6, singolarmente simile a quella giapponese. Infine, in Italia, il Pil è previsto al 96.8 con l'occupazione a 95.4 e la forbice a 1.4. Nel caso italiano, però, i dati sono, a bocce ferme, tutti negativi. Si osservi ancora che la forbice appare meno ampia quando il progresso tecnico è minore come intensità o meno rapido. Questo non è un vantaggio, perché un basso livello tecnologico peggiora la competitività internazionale e innesca un circuito perverso: minore incremento del Pil, minori investimenti, bassi salari, bassa domanda, etc. La controprova è fornita, nel caso italiano, dall'ultima rilevazione Istat: solo il 18,7% delle imprese italiane a tecnologia avanzata (quelle che sostengono le nostre esportazioni) nel corso della grande crisi hanno incrementato sia il fatturato che l'occupazione. Se ne deduce che l'unica strada per consentire all'occupazione di tenere il passo con un tasso di sviluppo che incorpori un forte progresso tecnico (condizione indispensabile di competitività), consiste nella riduzione dell'orario di lavoro.

 

Quali sono le condizioni atte a favorire contemporaneamente un progresso tecnologico diffuso, una maggiore occupazione ottenuta attraverso la rimodulazione dell'orario di lavoro ed un più alto livello dei salari? Occorrerà:

1) in primo luogo abbandonare le politiche controproducenti come gli sgravi fiscali sugli straordinari, che facendo costare meno l'ora extra rispetto a quella ordinaria agiscono di fatto come freno a nuove assunzioni.

2) Garantire la massima disponibilità sindacale alla rotazione degli orari, senza la penalizzazione delle remunerazioni più costose dei turni festivi o notturni, al fine di consentire una più intensa utilizzazione delle immobilizzazioni tecniche.

3) Una politica fiscale che incentivi in modo massiccio e duraturo gli investimenti innovativi, con esenzione totale non solo delle spese di ricerca e formazione, ma anche dei profitti reinvestiti.

4) Una politica industriale che contempli forti sinergie fra gli investimenti privati e quelli pubblici: intesi questi ultimi sia come committenze per le imprese private che come generatori di economie esterne, dalla logistica alla banda larga e dall'istruzione tecnica alla ricerca di base. Su questo punto a livello europeo l'Italia con altri Paesi dovrà condurre una decisa battaglia per l'ampliamento dei fondi strutturali e soprattutto del loro co-finanziamento, riprendendo anche la proposta degli eurobonds, purtroppo lasciata cadere dal pavido Hollande (dimentico dell'organica visione e della lungimiranza del suo connazionale Delors). Ritornando nel mondo renziano, vorremmo anche che non sia lasciata cadere in un silenzio tombale la proposta dei sette piani industriali settoriali, contenuta nella stesura originaria del cosiddetto Jobs Act.

5) L'ultimo suggerimento, se integralmente applicato, farebbe rabbrividire il Cerbero Schaeuble; ma è la conditio sine qua non non solo per la ripresa, ma soprattutto per la sostenibilità del fiscal compact nelle economie più deboli. Occorre iniettare nel corpaccione comunitario e, quindi, nell'economia italiana, una moderata dose di inflazione. Le esperienze giapponesi e americane (la Abeconomics e le iniezioni di liquidità della Federal Reserve) dimostrano che essa ha due effetti positivi: alimenta la propensione ad investire per la previsione di prezzi crescenti e riduce il peso dell'indebitamento pregresso. Già nel lontano 1950 Paul Samuelson aveva dimostrato gli effetti positivi di una moderata inflazione che avvantaggia i debitori pur svantaggiando i creditori.

    

Un recente studio ha dimostrato che, mentre a prezzi costanti il fiscal compact richiederebbe annualmente un avanzo primario dell'ordine di decine di miliardi (ma non i terroristici 50 miliardi, come ha rilevato il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco), cifra comunque insostenibile, con una inflazione fra il 2 e il 3% l'avanzo si ridurrebbe a qualche miliardo. Naturalmente l'ipotesi di fondo è il pareggio di bilancio delle partite correnti, compresi gli interessi e la creazione di un avanzo primario il cui valore sarebbe annualmente incrementato in modo cumulativo anche da un tasso di inflazione modesto.

 

Ci auguriamo che la nuova classe dirigente di cui il Paese dovrà pur dotarsi, non solo per quanto riguarda la classe politica, ma anche per quella imprenditoriale - smetta di cibarsi di loto (il fiore dell'oblio) ma recuperi le idee più valide dei dibattiti del passato e si ispiri anche alle esperienze contemporanee di alcuni grandi Paesi.

Lunedì, 31. Marzo 2014
 

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