Un ingannevole trio

Cuneo fiscale, sostegno alle Pmi, regole di bilancio sono i tre temi principali del dibattito economico e dei programmi del nuovo governo, ma vengono per lo più affrontati in modo superficiale, più attraverso slogan che con spirito critico

L'incalzare - per ora verbale e cartaceo - dei programmi del nuovo governo si aggancia a tre pilastri fondamentali, la cui significatività viene data per scontata. Come rilevato in precedenti articoli assistiamo all'assenza di un dibattito critico su temi di grande rilevanza pratica. Nell'era dei tweets prevale il messaggio della parola, ma non nel significato evangelico.

    

I tre pilastri sono: il cuneo fiscale (al quale è connesso il costo del lavoro); la necessità di sostenere la piccola e media impresa; il complesso dei famosi (starei per dire "tristemente famosi") parametri di Maastricht.

 

Il cosiddetto "cuneo fiscale" è in realtà un aggregato di elementi eterogenei: salario differito (Tfr); versamenti come sostituto d'imposta (fiscalità sui dipendenti con trattenute alla fonte); contributi previdenziali (in assenza dei quali occorrerebbe aumentare i salari forse in misura maggiore, per consentire ai dipendenti stessi il ricorso alle assicurazioni private, notoriamente più costose); l'assicurazione infortuni sul lavoro che non credo alcuna azienda abbia mai pensato fosse da abolire. Una "tassazione del lavoro" potrebbe consistere nell'inclusione del costo del lavoro nell'imponibile Irap, come attualmente avviene. Trattandosi di un tributo sulle attività produttive non è chiaro perché dovrebbe esentare l'uno o l'altro dei fattori di produzione che a tali attività concorrono, se non per creare un vantaggio artificiale a favore di uno di essi. Quanto ciò giovi, nel caso del lavoro, allo sviluppo tecnicamente sostenibile e quindi ad una duratura occupazione è tutto da dimostrare.

 

Riesaminando analiticamente la componente costo del lavoro (che incide ben poco sulle imprese avanzate, come dimostrano i recenti dati Istat sulla produzione industriale delle imprese esportatrici che hanno un livello dei salari relativamente alto), sarebbe meglio riferirsi al costo del lavoro per unità di prodotto (Clup). Nelle fasi recessive le economie di scala si muovono all'incontrario, perché i costi fissi, come gli ammortamenti, si ripartiscono su un numero minore di unità vendute. La produttività per operaio è correlata al contesto che include oltre alle citate economie di scala, livello della tecnica, design, organizzazione e marketing. Le soluzioni potenziali sono due. La prima consiste nel parcheggiare quote di lavoratori in cassa integrazione e al limite dismettere gli impianti in eccedenza. La seconda, che richiede propensione al rischio, capacità imprenditoriali e disponibilità finanziarie, implica un salto della tecnica e probabilmente una riorganizzazione dimensionale. Sono queste le motivazioni che spiegano la crisi che ha investito le piccole e medie imprese, alle quali si vorrebbero destinare risorse di supporto. Queste aziende, soprattutto nel settore dei servizi, nel clima ovattato di regimi semimonopolistici (messi in difficoltà da direttive europee), erano cadute da tempo in una abulia organizzativa, agevolata o indotta da rotazioni dirigenziali familistiche o da protezionismi categoriali.

    

Qui si svela l'interpretazione impropria del secondo pilastro ricordato. Abbiamo osservato altre volte che non esiste in teoria il concetto di piccola e media impresa, ma solo quello di impresa di dimensioni ottimali rispetto al mercato ed al livello della tecnica. Quando l'Istat rileva recentemente che le imprese che hanno successo si caratterizzano non tanto per le dimensioni quanto per tipologia di prodotto, contenuto innovativo e dimensioni del mercato, fa in realtà la scoperta dell'ombrello. In quest'ottica gli interventi a favore delle imprese "deboli" avranno un impatto positivo solo se favoriranno il conseguimento di dimensioni e tecnologie ottimali; dovrebbero avere vita breve; rientrerebbero nella notissima teoria ottocentesca della infant industry.

    

Riallacciandoci alla precedente tematica, quanto più si abbassa artificialmente il costo del lavoro in questo mondo imprenditoriale, tanto meno diviene cogente la ricerca di innovazioni di processo e di prodotto. Talora si dimentica, infine - dalla parte confindustriale - la natura bifronte del salario, componente di costo e al tempo stesso fattore della domanda aggregata. Si narra che il primo Ford alla domanda a chi si proponesse di vendere il mitico modelloT, rispose: "ai miei operai".

 

Rimarrebbe da esaminare criticamente il terzo pilastro. I parametri di Maastricht si fondano su un'interpretazione perfettamente coerente della teoria monetaria classica. Secondo essa i disavanzi pubblici e gli avanzi o disavanzi della bilancia dei pagamenti influenzano il livello dei prezzi e quindi la stabilità della moneta che, all'interno di una certa forcella, viene considerata un fattore positivo per uno sviluppo economico "equilibrato". Va tenuto presente anche il ruolo della moneta bancaria o delle quasi-monete create in varie forme dal settore privato e del loro rapporto con i relativi assets. A ciò serviranno le norme che regolano, più cogentemente oggi dopo le bolle del passato, le strutture patrimoniali e delle riserve del sistema bancario.

    

Quando la moneta circola in un territorio nazionale, i vari parametri vanno correlati agli indicatori della nazione stessa. Conseguentemente avanzi e disavanzi pubblici e della bilancia dei pagamenti saranno rapportati al prodotto interno lordo dello Stato che esercita quella particolare sovranità monetaria. Nel caso della lira, se avessimo voluto verificare (a parte l'attribuzione di responsabilità) in che misura il disavanzo della Regione Calabria incida sulla stabilità della moneta, esso sarebbe stato correlato al Pil italiano e non certo a quello della regione stessa.

    

Quando una moneta circola in modo esclusivo in un'intera area (Eurozona) i parametri andrebbero riferiti al prodotto interno lordo della medesima area, e non a quelli dei singoli Paesi. Con questo tipo di calcolo - a mio avviso metodologicamente più corretto - il caso greco sarebbe apparso marginale (e come tale trattato e risolto) e il debito pubblico italiano, la cui quantità è quasi uguale a quella del debito pubblico tedesco, avrebbe una percentuale sostanzialmente simile. Infine - last but not least - poichè i criteri valgono nelle due direzioni (avanzo e disavanzo) da tempo la stessa Germania, con il suo persistente e ampio avanzo commerciale con l'estero, avrebbe dovuto essere sottoposta a severa procedura di infrazione. In questa Europa un po' orwelliana i Paesi membri sono tutti eguali, ma qualcuno lo è più degli altri. Questo ingannevole trio di concetti fantasma avvinghia i Paesi più deboli della Ue in una danza macabra, alla quale è difficile sottrarsi senza un recupero di pensiero critico.

Lunedì, 31. Marzo 2014
 

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