L’export suona l’allarme

Tutti aspettano la ripresa, ma proprio dal tradizionale punto di forza della nostra economia vengono indicazioni preoccupanti. Principali imputati sono la debolezza del mercato interno europeo e l’euro, che si è rivalutato dell’8% da un anno e mezzo a questa parte. Anche il nostro “sistema paese” potrebbe però fare di più

Tutti aspettano la ripresa, ma l’attesa rischia di rimanere delusa. Gli ultimi dati congiunturali in realtà non ci consegnano un quadro univoco. Ci sono stati – è vero – alcuni segnali positivi. La produzione industriale ha fatto segnare a novembre il terzo incremento consecutivo rispetto al mese precedente, l’indicatore PMI relativo agli acquisti dei manager a dicembre ha consolidato la tendenza positiva in corso dall’estate, il fatturato e gli ordini sono anch’essi in crescita a novembre secondo l’ultima rilevazione dell’Istat.

 

Altri indicatori però alimentano seri motivi di preoccupazione. Innanzitutto, notizie sempre più negative vengono dall’occupazione, con il tasso di disoccupazione che ha raggiunto il 12,7% a novembre e una quota sempre più elevata di giovani che sono fuori sia dal mondo del lavoro che da quello della formazione. In secondo luogo, segnali di allarme provengono dalle esportazioni, che negli anni scorsi, nel mezzo della fase più acuta della crisi, apparivano come il nostro unico punto di forza. I dati di novembre del commercio con l’estero mostrano una diminuzione dell’export dell’1,9% rispetto a ottobre e del 3,4% nei confronti di novembre 2012. E non è un dato isolato, ma una tendenza che dura dall’intero 2013, se è vero che nei primi undici mesi di quest’anno le esportazioni sono diminuite dello 0,5% rispetto allo stesso periodo del 2012, facendo prevedere un consuntivo di fine anno negativo.

 

Il confronto con gli anni precedenti è stridente. Nel 2011 le esportazioni in valore erano aumentate dell’11,4% e nel 2012 del 3,8%. Che cos’è successo l’anno scorso per determinare questa brusca inversione di tendenza?

 

Innanzitutto, occorre dire che nel 2013 non c’è stato un rallentamento del commercio mondiale, aumentato del 3% rispetto al 2,7% del 2012. La spiegazione va piuttosto ricercata sia nella perdurante debolezza del mercato interno europeo, che rappresenta il 54,3% del nostro export, sia nel tasso di cambio dell’euro.

 

Per quanto riguarda il primo aspetto, va rimarcato che nei primi undici mesi dell’anno le esportazioni italiane verso i Paesi Ue sono diminuite dell’1,9%. Quelle verso i Paesi extra-Ue sono invece aumentate dell’1,2%, un valore positivo, ma nettamente inferiore rispetto al 14,9% del 2011 e al 9,4% del 2012. E qui entra in gioco il cambio dell’euro, che da luglio 2012 a fine 2013 si è apprezzato in termini reali più dell’8%, recuperando il deprezzamento che era avvenuto da aprile 2011 a metà 2012. Un apprezzamento che a sua volta trae origine dal grande surplus di parte corrente della bilancia dei pagamenti tedesca, salito al 7% del PIL nel biennio 2012-2013.

 

Principale imputata sia della debolezza della domanda sia dell’andamento del cambio è la politica deflazionistica dell’Unione europea, ispirata dalla Germania. Con prospettive ancora negative anche per quest’anno. E’ infatti probabile che nel 2014 l’euro continuerà ad apprezzarsi nei confronti di tutte le principali valute. Poche illusioni sono da farsi pure sull’allentamento della politica di rigore dell’UE, anche se i semestri di presidenza del Consiglio europeo nel 2014, prima greca e poi italiana, potrebbero rappresentare l’occasione per tentare un cambio di passo. E’ chiaro infatti una volta di più che questa politica europea penalizza oltre modo economie come la nostra, che avrebbero bisogno di misure espansive di sostegno alla domanda interna e di un tasso di cambio meno forte per rilanciare le esportazioni.

 

Qualcosa di più però potrebbe fare anche il cosiddetto “sistema paese”, ossia l’insieme di tutte quelle istituzioni – Ice, enti pubblici preposti all’internazionalizzazione, Camere di commercio, banche, associazioni di categoria – che dovrebbero accompagnare le nostre imprese nel complicato approccio ai mercati esteri. Da una recente ricerca della Fondazione Nord Est emerge come quasi il 60% delle imprese faccia completamente da sola nell’operare sui mercati esteri. Un appoggio agli esportatori viene da associazioni di categoria (9,8%), banche (8,3%), Camere di commercio (6,8%), società di consulenza (5%). Tra i soggetti cui gli esportatori si rivolgono mancano invece quasi completamente l’Ice (soltanto l’1,5%) e gli altri enti pubblici preposti all’internazionalizzazione - ministeri, ambasciate, Simest, Finest - che, messi tutti assieme, non superano il 2,5%.

 

Eppure sono proprio questi i soggetti che dovrebbero non solo fornire assistenza tecnica ex-post alle imprese sui mercati esteri, ma soprattutto preparare il terreno per il successivo “sbarco” delle imprese italiane. Ad esempio, sviluppando la collaborazione e gli scambi culturali, flussi migratori compresi, a partire dalle aree più vicine al nostro paese, come il Mediterraneo, il Medio Oriente e l’Europa centro-orientale. In una fase in cui la globalizzazione sta assumendo sempre più caratteristiche di integrazione regionale, l’esempio da seguire è proprio quello della Germania, che con l’Europa centro-nord orientale ha stabilito rapporti commerciali e produttivi sempre più radicati e profondi.

 

La strada da battere è dunque duplice: da un lato, sviluppare maggiormente la collaborazione tra imprese, banche e soggetti pubblici preposti all’internazionalizzazione; dall’altro, costruire rapporti integrati e flessibili con i partner stranieri.

Giovedì, 23. Gennaio 2014
 

SOCIAL

 

CONTATTI