Una manovra figlia del pensiero corto

Come il popolo delle scimmie nel Libro della Jungla, la classe dirigente dimentica il passato e ripete discorsi su punti che sembravano acquisiti, senza mostrare alcuna capacità di proiettarsi verso il futuro. La Legge di stabilità non sfugge a questa logica

Avete presente lo spessore di una fetta di lime messa di costa sul bordo di un bicchiere di tequila? Questa è un'efficace rappresentazione visiva delle dimensioni del "pensiero corto", caratteristico delle classi dirigenti del nostro Paese. Il pensiero corto consiste nell'eliminare, nelle impostazioni teoriche e nelle conseguenti scelte operative, una larga parte delle conoscenze del passato e del prevedibile futuro.

    

Una precisazione preliminare è opportuna. Il termine "classe dirigente" non può e non deve riferirsi unicamente alla classe politica: devono essere inclusi i vertici della pubblica amminustrazione e delle aziende partecipate, gli imprenditori, i sindacati, la intellighenzia (o quella che si autoreputa tale), i responsabili dei mass-media e, last but not least, i cosiddetti opinion makers.

    

La "fetta" di passato affiorata è molto ampia. Sembra che vi sia una sorta di damnatio memoriae nei confronti dei risultati delle grandi battaglie intellettuali che hanno visto opporsi nel diciannovesimo e per buona parte del ventesimo secolo le scuole liberista e socialista. L'esito di questi antagonismi si tradusse in una serie di punti fermi nelle teorie economiche e sociali. Queste conquiste del pensiero attenuarono la policromia delle scelte in un quadro di tinte più sfumate, in cui l'alternarsi delle maggioranze nei Paesi non totalitari modificava le tendenze di fondo senza brusche svolte e ne rendeva altre irreversibili. In Italia ne fu un esempio il giolittismo.

 

Nell'attuale fase storica abbiamo la sensazione che il processo decisionale sia paragonabile a quello del popolo delle scimmie che, secondo quanto Kipling fa dire a Mowgly nel Libro della Giungla, ripete ogni giorno gli errori di quello precedente perché privo di memoria. Né si può dire, con battuta naive, che il pensiero corto sia figlio del cosiddetto "secolo breve". Il trentennio postbellico fu caratterizzato da avanzamenti metodologici condivisi, almeno in Italia, dal quasi intero arco dello schieramento politico. Sono proprio questi i punti sui quali periodicamente sembrano riaccendersi i fuochi fatui di un dibattito che come in un eterno ritorno sembra partire ogni volta da zero.

 

Li ricordiamo brevemente. Cominciamo dal tipo e dal livello della tassazione. Era pacifico il criterio della progressività rapportata alla capacità contributiva, ma moderata nei confronti delle imprese perché al processo di accumulazione anche le sinistre più radicali attribuivano un valore sociale. Si era consolidato il criterio della detrazione delle spese per la produzione del reddito. Non si erano ancora verificate quelle distorsioni elusive, comprovate da statistiche recenti, per cui gli imponibili dichiarati di certe professioni finiscono per essere inferiori a quelli del lavoro dipendente.

    

Si era convenuto, sia pure con gradazioni diverse, che lo Stato e gli enti pubblici avessero un ruolo nella copertura dei costi costanti sociali e negli investimenti a produttività diffusa e/o lungamente differita. Anche il socialismo europeo aveva accettato la selezione meritocratica, temperata però da una tendenziale eguaglianza delle condizioni di partenza e dal solidarismo sociale nei confronti dei più deboli: al quale con un pizzico di cinismo veniva riconosciuto il merito di contribuire allo sviluppo equilibrato, alimentando una componente della domanda aggregata. Anche i problemi delle economie sottosviluppate avevano trovato soluzioni equilibrate. Se fossero state tenacemente perseguite, anziché ritornare ad un colonialismo commerciale di rapina, si sarebbero forse potute arginare le emorragie migratorie. Alcune di queste conquiste intellettuali trovarono una consacrazione politica nel Congresso di Bad Godesberg della socialdemocrazia tedesca: causa non ultima dell'ordinato sviluppo socioeconomico di questo grande Paese.

    

Anche nel più controverso campo dei rapporti di lavoro le polemiche si erano stemperate, approdando a soluzioni ragionevoli. Lo slogan barricadero del salario come variabile indipendente si era tradotto in una più equilibrata correlazione tra produttività del lavoro, intensità di capitale, economie di scala e livello di organizzazione. Il che è quanto dire che il salario dipende anche dalla capacità degli imprenditori e non solo da quella dei lavoratori. Prima degli uragani neoliberisti, delle bolle finanziarie e del lungo inverno della crisi, anche un altro slogan come "lavorare meno per lavorare tutti" stava sfociando nelle turnazioni con orari accorciati in grado di accrescere il coefficiente di utilizzo del capitale fisso. Lo stesso dilemma tra monopolio e concorrenza aveva trovato composizione, per fruire dei vantaggi delle economie di scala, nei modelli della "workable competition" (poco applicata in Italia dove il feudalesimo economico e il familismo imprenditoriale hanno continuato ad imperare).

    

Queste conquiste condivise del pensiero socio-economico sono state travolte dallo tsunami del neoliberismo e dell'individualismo etico. Questo ventennio grigio - che in Italia ha assunto i caratteri tragicomici della Commedia dell'Arte - ha generato la società molecolare, nella quale il pensiero corto è anche causa ed effetto del declino di quei partiti di massa che offrivano occasione non solo di rielaborazioni culturali, ma anche di rapporti umani. L'individualismo ha generato la solitudine dei numeri primi. Le certezze assolutistiche della libertà economica si sono tradotte nella stupita contemplazione delle macerie della struttura sociale, in un panorama al quale ben si appone la definizione tacitiana "desertum faciunt et pacem appellant".

 

Il sapere acquisito sembra dimenticato, come dimostrano le baruffe chiozzotte che punteggiano il dibattito quotidiano. Ciò è tanto più strano in quanto - pur attraverso il mutare delle istituzioni e delle tecniche - esistono negli aggregati umani uniformità comportamentali addirittura plurisecolari. Ricordo gli sguardi corrucciati dei miei più anziani colleghi quando sostenevo che le scienze economiche, a diversità di quelle tecniche, non avevano compiuto, da Aristotele in poi, progressi sostanziali. Assistiamo, dunque, ad una coazione a ripetere, con la riscoperta e la ridiscussione delle certezze del passato. Forse anche l'informatica ha una sua parte di responsabilità: i clic ed i "mi piace" non contribuiscono all'elaborazione del pensiero critico. Anche l'afflusso dei quisdam de populo pentastellati, dopo la valanga degli amici dei potenti, non ha elevato il livello di memoria storica dei nostri parlamentari. In questo contesto la classe dirigente nell'aprire le danze delle grandi scelte non privilegia né il tango appassionato né il valzer vorticoso, ma il ballo del mattone.

 

Ancor più grave la brevità della proiezione nel futuro. Secondo molti analisti, quel cluster di innovazioni previsto parecchi anni fa per il 2015 è praticamente arrivato (il cfr. il "Progetto per un nuovo Rinascimento scientifico e culturale": lettera aperta congiunta di L. Fontana, professore di Medicina a Washington e V. Atella, economista e direttore del Ceis di Tor Vergata, su "La Stampa" del 9/10/2013). Un vasto patrimonio di invenzioni, nuovi materiali, processi e prodotti è già disponibile nei laboratori di ricerca di tutto il mondo, Italia compresa. Nelle Facoltà scientifiche giovani ricercatori scalpitano, come puledri di razza. Tra di essi vi è certamente un Nobel di domani. Vi sono covate di scoperte scientifiche e di cervelli geniali che si stanno schiudendo. L'incubatore più congeniale per accelerare la realizzazione di queste aspettative è, come dimostrano i casi degli Stati Uniti e della Cina, l'intervento pubblico.

 

All'indomani dell'approvazione da parte del CdM della Legge di Stabilità sarebbe ingeneroso non riconoscere al governo uno sforzo per porre un piede sul predellino del treno dello sviluppo. Si avverte una leggera brezza redistributiva ed una pressione, commisurata alla scarsità di risorse, sul desueto tasto del costo del lavoro (che, lo ricordiamo, pesa solo per l'8-10% sul valore del prodotto delle imprese a tecnologia avanzata). Qualche carta è stata tenuta coperta, come l'entità dell'accordo con la Svizzera, gli introiti fiscali della rivalutazione del capitale della Banca d'Italia e i possibili margini di un ulteriore calo dello spread. Al di là delle scontate critiche di sindacati e imprenditori (ci voleva "ben altro"...) per l'insufficienza della manovra, non si può non constatare che essa è tipicamente figlia del pensiero corto.

 

Provate ora ad immaginare quale sarebbe stato, anche sotto il profilo psicologico, l'impatto sull'economia italiana se una dirigenza meno short-sighted avesse destinato la totalità o gran parte delle somme stanziate ad una manovra a tenaglia con due leve principali: a) l'acquisto di brevetti e licenze di nuove tecnologie, attingendo alla cornucopia innovativa già disponibile e la cessione alle imprese più ricettive; b) la concessione, alle stesse imprese di benefici fiscali pluriennali per il loro impegno in ricerca e sviluppo e per l'avvio della produzione di scala. Gli effetti sarebbero probabilmente così ampi da creare le condizioni per un cosiddetto "salto della tecnica". La selezione dei brevetti potrebbe essere affidata a un team di tecnologi ed esperti di marketing tratti da centri di ricerca pubblici e privati. Quanto agli effetti occupazionali, le esperienze della Sylicon Valley dimostrano che per ogni nuovo addetto nel settore di punta se ne creano 5 nell'indotto. Quanto agli effetti redistributivi, i notevoli incrementi di valore aggiunto generati dalle innovazioni, soprattutto strategiche, dovrebbero offrire spazio per manovre di perequazione sociale.

 

Potremmo chiederci, in conclusione, se vi siano sintomi dell'apparire di dirigenti in grado di pilotare una manovra così audace. In questo momento i mass media tambureggiano il nome di qualche homo novus. Di quello più noto si potrebbe forse dire quel che Andreotti affermò prima dell'unificazione tedesca: taluni lo apprezzano tanto da augurarsene due, e molto diversi, uno per la propaganda e un altro per il governo. Ma tant'è. Travolti da frenesia citazionista, diremo che "in terra caecorum, orbus rex".

Venerdì, 18. Ottobre 2013
 

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