Nessuno tocchi il diritto di sciopero

Torna alla ribalta, anche per la presa di posizione Fiat, la questione di una legge sulla rappresentanza sindacale. Di alcune chiare e limitate regole c’è sicuramente bisogno: basta che non emerga la tentazione di estenderle alla limitazione del diritto individuale di sciopero, come si tentò di fare in passato

Il tema di una disciplina legislativa della rappresentanza sindacale sta tornando di attualità, ma non nel modo corretto, almeno a leggere alcuni commenti. La questione, che si trascina con fasi alterne da oltre mezzo secolo, viene infatti rilanciata a seguito della decisione della Fiat di applicare – finalmente – la sentenza della Corte costituzionale e di reintegrare la Fiom nel diritto alla rappresentanza nei luoghi di lavoro. La Fiat tuttavia ha corredato questo adempimento obbligato con un oscuro avvertimento: si minaccia per l’ennesima volta di abbandonare la produzione in Italia se non verrà stabilita una regolamentazione di legge della azione sindacale. Il punto naturalmente è: quale regolazione?

Non è mancato infatti chi si è affrettato a dichiarare che una attuazione dell’art. 39 della Costituzione, sulla libertà sindacale e sulla contrattazione collettiva, sarebbe inutile se non si introducesse anche una parallela limitazione del diritto di sciopero, di cui all’art.40, con l’obiettivo dichiarato di stabilire l’illegittimità tout court degli scioperi effettuati dopo la stipulazione di un contratto collettivo.

Viene in mente quanto accadde nei primi anni ’50 con il disegno di legge Rubinacci. A quel tempo la Cgil era favorevole ad una attuazione dell’art.39, che avrebbe assicurato la primazia contrattuale del sindacato maggioritario, ma contraria alla limitazione del diritto di sciopero, considerato non solo un diritto individuale indisponibile, ma, ancora di più, un diritto di natura politica, in quanto strumento di emancipazione della classe lavoratrice. La Cisl al contrario era favorevole a un intervento legislativo in materia di sciopero, in specie con riferimento ai  servizi pubblici, ma contrarissima a una attuazione dell’art.39, in nome del principio della autonomia sindacale ma soprattutto per più pratiche ragioni di segno, ovviamente, opposto a quelle che muovevano la Cgil. In tale contesto la maggioranza governativa del tempo ebbe quindi la brillante idea di presentare un disegno di legge organicistico e iperrestrittivo, appunto il ddl Rubinacci, in cui si affrontavano entrambi i temi con il risultato di sommare i dissensi di segno diverso. Non se ne fece quindi nulla, anche perché premevano altre urgenze: erano i tempi della cosiddetta legge truffa, molto più democratica – sia detto per inciso – dell’attuale Porcellum.

Sul tema calò quindi un lungo sipario. Si consolidò quello che i giuristi hanno definito “ordinamento sindacale di fatto”, privo di regole di legge, che ha ben funzionato finché ha retto l’unità, quanto meno di azione, tra le maggiori confederazioni ed è andato puntualmente in crisi nelle fasi di divisione sindacale, ai tempi della rottura sulla scala mobile, del “Patto per l’Italia” del 2002 e, più di recente, degli accordi separati in tema di sistema contrattuale e nel corso della vicenda Fiat.

Di alcune, chiare e limitate regole di legge in materia di procedimento di stipulazione e di efficacia dei contratti collettivi c’è sicuramente bisogno. Queste devono essere ispirate al principio di fondo stabilito dall’art.39, il quale individua nella costituzione delle “rappresentanze unitarie” il meccanismo attraverso cui combinare libertà sindacale e unicità del contratto collettivo ad efficacia generale, vincolante per tutti. Non a caso le “rappresentanze sindacali unitarie” sono lo strumento essenziale, assieme ai criteri con cui misurare la rappresentatività dei sindacati e alle procedure negoziali, in un mix di strumenti di democrazia rappresentativa e democrazia diretta, previsto dagli accordi interconfederali tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria del 2011 e del 2013. A questi accordi, con le dovute cautele, può darsi forza di legge.

Ma attenzione. In quegli accordi non a caso è scritto che eventuali limitazioni nell’esercizio del diritto di sciopero (le cosiddette clausole di tregua) valgono per le organizzazioni sindacali e non per i singoli lavoratori. Infatti il diritto di sciopero resta un diritto individuale ad esercizio collettivo, come da sempre ha affermato la migliore cultura giuslavorista, e non può quindi essere limitato salvo che ai fini di garanzia di beni costituzionalmente prevalenti, come nel caso dei servizi pubblici essenziali e di ragioni di sicurezza. Evitiamo quindi di farci prendere da velleitarie smanie organiciste à la Rubinacci, destinate a macinare acqua nel mortaio o addirittura a produrre danni, come accadde alla famosa gattina frettolosa.   

(Questo articolo è stato pubblicato anche su L’Unità)

Venerdì, 6. Settembre 2013
 

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