Decreto lavoro, il pasticcio da correggere

Uno dei commi interviene ancora a proposito del famigerato art. 8 che permette ai contratti aziendali di derogare non solo a quelli nazionali, ma anche alle leggi: una norma che non ha eguali in nessun paese civile. Ma l’intervento rischia di peggiorare la situazione: l’unica soluzione è abolire quell’articolo

Il decreto lavoro già nella attuale stesura appare viziato da una evidente contraddizione: da un lato si incentivano, giustamente, i rapporti di lavoro a tempo indeterminato e la stabilizzazione dei lavori precari, ma dall’altro si allargano di nuovo le maglie delle assunzioni temporanee, in particolare per i contratti a termine. Se poi si introducesse, come da varie parti si propone, la variante-Expo si verificherebbe un vero e proprio atteggiamento schizofrenico: per tre anni in nome della esposizione milanese i contratti a termine verrebbero totalmente liberalizzati, per giunta su tutto il territorio nazionale, con buona pace delle conclamate politiche di contrasto alla precarietà.

 

Ma c’è un’altra norma del decreto che suscita forti perplessità. Mi riferisco a quanto previsto dal comma 4 dell’art.9 a proposito del noto art.8 della legge n.148 del 2011. Si tratta della disposizione inopinatamente introdotta nel decreto legge di stabilizzazione finanziaria emanato nell’agosto 2011 dal governo Berlusconi in articulo mortis, poi convertito nella l. n.148. Tale norma pretende di legittimare una sorta di aziendalizzazione anarchica del diritto del lavoro. Essa attribuisce infatti ai contratti aziendali e territoriali la facoltà di introdurre deroghe generalizzate sia ai contratti nazionali di categoria sia alle disposizioni di legge, in materia di licenziamenti, orari di lavoro, forme di assunzione, qualificazione dei rapporti di lavoro, partite Iva ecc. Ove questa norma si applicasse non esisterebbe più un diritto del lavoro fondato su un criterio, per quanto flessibile, di uniformità, ma una frammentazione regolativa di tipo situazionista, ispirata alla logica del “fai da te”.

 

Inutile dire che di una norma siffatta non c’è alcuna traccia negli ordinamenti dei paesi civili, e che essa contrasta con una serie imponente di principi costituzionali e del diritto dell’Unione europea. Se ne trova traccia in un disegno di legge presentato a suo tempo al senato brasiliano, poi cassato a seguito del veto opposto dal presidente Lula. Tant’è che i sindacati fin qui l’hanno sostanzialmente sterilizzata: gli accordi interconfederali unitari del 28 giugno 2011 e del 31 maggio 2013 sulle regole della rappresentanza hanno infatti riconfermato il carattere bipolare del sistema contrattuale e regolato le limitate potestà derogatorie della contrattazione aziendale rispetto alla contrattazione nazionale e non certo rispetto alle disposizioni di legge.

 

Ciò è tanto vero che al momento della conversione del decreto agostano del 2011 la Camera dei deputati  votò pressoché all’unanimità un ordine del giorno, proposto dall’on. Cesare Damiano, in cui si afferma che “le disposizioni dell’articolo 8 rappresentano un improprio intervento del governo sui temi del modello contrattuale e della rappresentatività sindacale, materie che non hanno alcun carattere di necessità ed urgenza e che non hanno motivo di essere trattate in un provvedimento di natura finanziaria come quello in esame” e che appare “estremamente grave l’introduzione del principio della derogabilità di leggi e contratti collettivi nazionali da parte dei contratti aziendali, soprattutto laddove siano in gioco importanti e sostanziali diritti dei lavoratori”. Talchè l’ordine del giorno si concludeva impegnando il governo “a valutare attentamente gli effetti applicativi dell’articolo 8, al fine di adottare ulteriori iniziative normative volte a rivedere quanto prima le disposizioni”.

 

In sede di conversione fu quindi introdotto un emendamento per così dire cautelativo: nel comma 2 dell’art.8 alla disposizione attributiva ai contratti aziendali e territoriali della facoltà derogatoria alla legge e ai contratti nazionali di lavoro fu infatti aggiunto l’inciso “fermo restando il rispetto della Costituzione nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali”. Come se avesse senso in una legge ordinaria ipotizzare il contrario! Ora - e questo è il punto - lo strano governo in carica, che non si sa come chiamare (di eccezione? di servizio?) propone di aggiungere un ulteriore inciso: “subordinatamente al loro (dei contratti ) deposito presso la direzione del lavoro competente per territorio”. L’emendamento è mosso certo da una buona intenzione: quella di introdurre un deterrente, di impedire il ricorso truffaldino ai contratti-pirata imponendo un obbligo di trasparenza. Ma come si sa di buone intenzioni sono lastricate…

 

Infatti muovendo dalla volontà di fare emergere eventuali pratiche opache, si corre il ben più corposo rischio di legittimare implicitamente il ricorso al meccanismo della indiscriminata derogabilità a leggi e contratti nazionali. Accadde un fenomeno analogo quando la riforma Dini del 1995 introdusse la gestione separata e lo specifico prelievo contributivo per i collaboratori coordinati e continuativi. Anche in quel caso l’intenzione era buona: si trattava di fare emergere un fenomeno sommerso oltre che di fare cassa. La conseguenza fu tuttavia un’altra: la gestione separata presso l’Inps funzionò come un meccanismo implicito di legittimazione. Da quel momento infatti dilagò l’abuso del ricorso fraudolento ai co.co.co., a cui si sta ancora faticosamente cercando di rimediare. Meglio quindi lasciar perde. Una noma francamente indecente non può essere emendata: merita solo di essere cassata e cancellata definitivamente dall’ordinamento.  


(Questo articolo è apparso anche su L’Unità)

Lunedì, 15. Luglio 2013
 

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