L'ambiguo compromesso del 28 giugno

Per valutare l’intesa sindacati-Confindustria la cautela è d’obbligo, sia per i suoi aspetti contraddittori (come ad esempio il principio della preminenza del contratto collettivo nazionale che coesiste con quello della sua derogabilità), sia perché non scioglie il nodo della rappresentatività. Ma quest’ultimo punto, in questa fase politica, forse non è un male

Ormai, il codice comunicativo di cui si servono gli attori collettivi è decifrabile con crescente difficoltà dagli esperti di diritto sindacale; figurarsi l’effetto che fa sui comuni mortali. Anche per questo i mass media si sono limitati ad informare che, sottoscrivendo l’intesa del 28 giugno, le parti sociali hanno compiuto un gesto di responsabilità. Ma hanno fornito notizie superficiali e incomplete sui contenuti effettivamente negoziati. Per esempio, ai più è sfuggito che un conto è leggere in un saggio di dottrina che la clausola di tregua non ha effetto vincolante per i singoli lavoratori, perché la titolarità individuale del diritto di sciopero (secondo l’opinione prevalente) non si tocca; cosa diversa è vedere riportata la medesima opinione nel testo di un accordo sindacale.  Infatti, il punto 6 dell’intesa, riconoscendo la liceità sia della conflittualità sociale spontanea (una volta la definivano selvaggia) che dell’azione di prevenzione e contrasto alla medesima che il sindacato s’impegna con la controparte a sviluppare, dà per scontato che lo scollamento tra la logica del comportamento dell’organizzazione e la dinamica degli interessi reali rientri nella normalità: come dire che il sindacato sa di avere piazzato nel suo sottoscala una carica di tritolo che potrebbe scoppiare là per là, senza preoccuparsi che in questo modo finisca per deteriorarsi il tessuto democratico.

Analogamente, si evita di precisare che la RSU è di natura ibrida, perché non tutti i componenti hanno legittimazione elettorale, e che quelli designati dal sindacato (nella misura di un terzo della totalità) possono essere di fatto e de iure determinanti per la formazione della maggioranza (semplice) che chiude la trattativa aziendale. Non saprei dire se e quanto calcolata, ma la reticenza rende meno impressionante la circostanza che  i destinatari degli effetti del contratto non hanno diritto a manifestare l’eventuale dissenso (punto 4). Insomma, la valorizzazione della RSU come agente contrattuale è accompagnata da una presunzione assoluta di consenso dei diretti interessati che le permette di operare in un clima di accentuato decisionismo.

Come si vede, la povertà dell’informazione data in pasto al grande pubblico contribuisce a rendere insuperabile la sfida dell’ermetismo del documento. Vero è che ogni mestiere è contraddistinto da un linguaggio gergale. Ma ciò che imbarazza è lo sfuggente quadro d’insieme, la contraddittorietà degli orientamenti che vi affiorano, la mancanza di condivisione progettuale. Infatti,
- il principio della preminenza del contratto collettivo nazionale (punti 2 e 3) coesiste con quello della sua derogabilità, la cui latitudine potrà variare da un minimo ad un massimo inimmaginabili a priori (punto 3), ma che (come dispone il punto 7 che ha l’aria di equivalere ad una disposizione di diritto tra il transitorio e il suppletivo) è ammessa anche “ove non prevista” e comunque “in attesa” dei prossimi rinnovi contrattuali.
- L’assunto che tutti i lavoratori devono poter contare sugli standard protettivi fissati dal contratto collettivo nazionale è ribadito e condiviso (punto 2), ma questo contratto è orfano dell’erga omnes; cui oltretutto gli stessi sindacati sono da sempre avversi, perché temono i Danai anche se portano doni, e difatti non li sollecitano: come invece succede per la contrattazione aziendale a favore della quale il punto 8 auspica, con le movenze di un avviso comune, interventi del potere pubblico sub specie di facilitazioni fiscali (punto 8).
- La legittimazione della RSA come agente contrattuale, sia pure sulla base di una presunzione di consenso soltanto relativa (punto 5), potrebbe emarginare dallo scenario delle relazioni sindacali a livello aziendale un istituto di natura (ancora soltanto) convenzionale come la RSU: tutto dipende dall’andamento del processo di riconciliazione appena riaperto tra le confederazioni e dunque dalla volontà di istituire RSU anziché RSA. Alla fin dei conti, la sopravvivenza della RSU dipende fondamentalmente dalla necessità di azionare il meccanismo di calcolo adottato per misurare la rappresentatività sindacale a livello nazionale (punto 1); ragion per cui la diffusione della RSU diventa una variabile dipendente dalla tenuta dell’opzione favorevole alla centralità del contratto nazionale: cosa cui le parti sociali non sembrano particolarmente interessate, visto che il contratto aziendale può definire “specifiche intese modificative anche in via sperimentale e temporanea” (punto 7). “Anche”, sta scritto proprio così; e la congiunzione, se non è il frutto di un involontario e innocente lapsus calami, sottintende che la figura del contratto aziendale derogatorio “in via sperimentale e temporanea” si aggiunge alla figura principale: quella del contratto aziendale definitivamente sostitutivo.

In conclusione, gli attori collettivi esibiscono una concezione proprietaria della rappresentanza e della contrattazione collettiva che non si sa se definire proterva o ingenua. Di sicuro, risale all’epoca precostituzionale delle sue origini. Il che significa che hanno interiorizzato il privilegio di far da sé in un contesto che ne esalta l’autonomia negoziale a tal segno da ritenere di poterla esercitare non solo al di fuori, ma anche al di sopra delle leggi dello Stato.

Per quanto sia meritoriamente percorsa da ritrovate pulsioni unitarie, l’intesa del 28 giugno è tardiva ed insieme prematura.  E’ tardiva perché è arrivata solamente in seguito alla, e in conseguenza della, crisi di sistema che ha invelenito le relazioni sindacali, traumatizzato il mondo del lavoro e umiliato il suo settore più direttamente coinvolto. Al tempo stesso, l’intesa è prematura perché brucia i tempi di una storia giuridica del diritto sindacale avvitata nella monocultura del cosiddetto diritto comune. 

Infatti, ha del paradossale che il tentativo (riconoscibile nella formulazione del punto 1) di dare al contratto nazionale di lavoro un assetto più adeguato al ruolo che dovrebbe svolgere secondo le previsioni costituzionali sia stata inserito nell’agenda delle priorità solamente per liberalizzare gli sviluppi della contrattazione aziendale in deroga. Come dire che il processo di rimozione delle incertezze regolative che indeboliscono la contrattazione nazionale nel dopo-costituzione ha ricevuto un’improvvisa accelerazione proprio perché, e quando, molti vorrebbero che la contrattazione aziendale facesse fare al livello negoziale superiore la fine del maschio dell’ape regina: avvenuta la fecondazione, muore. Mai, infatti, nemmeno quando il contratto nazionale di categoria era l’unica e più attiva fonte di produzione di regole del lavoro dipendente, gli interrogativi suscitati dal suo precario e rabberciato impianto normativo sono stati oggetto dell’ossessiva attenzione che le parti sociali dedicano al contratto aziendale d’inizio millennio. Sgradevole quanto fondato, pertanto, è il sospetto che, se la Confindustria (come, peraltro, la coppia Cisl-Uil) non fosse stata pressata dall’esigenza di attribuire ai contratti aziendali conclusi dalle RSA un’efficacia ultra partes, non sarebbe stato sancito l’obbligo degli agenti contrattuali a livello nazionale di rifarsi il maquillage in senso virtuosamente democraticistico. Anzi, unitamente alla previsione del test della validazione consensuale dei contrati aziendali stipulati dalle RSA, la verificabilità preventiva della rappresentatività è la misura compensativa di maggior spessore ottenuta dalla Cgil in cambio del suo avallo alla svolta della contrattazione collettiva in chiave aziendalistica.

Al di là di questo aspetto, il dubbio più inquietante è che con l’intesa sia stato siglato l’ennesimo armistizio di una guerra cominciata per inutile necessità tanto tempo fa. L’ossimoro – che piacerebbe all’inventore del teatro dell’assurdo – rimanda alla stagione in cui lo stesso sindacato si batteva per de-costituzionalizzare l’intero diritto sindacale ed esprime l’idea che, adesso, anche lui dovrebbe rendersi conto di avere partecipato ad una guerra destinata a chiudersi senza vinti né vincitori. Il fatto è che, sbagliando nel momento giusto, aveva ragione ad avere torto ed erano gli altri ad avere torto, perché avevano ragione nel momento sbagliato.

A lasciarli fare, i nostalgici dello Stato che ci aveva preso gusto a comportarsi da padre-padrone del sindacato avrebbero cercato in tutti i modi di riprodurre l’eguale nel diseguale; mentre proprio un movimento sindacale – che aveva ritardi storici da colmare quanto ad esperienza di libertà – aveva uno straordinario bisogno della chance di costruirsi la sua, imparando la grammatica e la sintassi del diritto generato dai gruppi in un regime di autoregolazione sociale il più lontano possibile dal diritto pubblico: gli schemi regolativi prefabbricati glielo avrebbero impedito e lo avrebbero soffocato in fretta.

In un soprassalto di autocritica, però, il sindacato e noi con lui dovremmo riconoscere che l’errore del passato – ma, ripeto, fu una culpa felix – è stato quello di avere alimentato la vulgata immunitaria che nasconde, anche se solamente a se stessa, che il sindacato è un’associazione privata originata da un contratto liberamente stipulato e, ciononostante, incline ad omologarsi alle istituzioni in bilico tra pubblico e privato, ma più sbilanciate verso il pubblico che verso il privato.

Infatti, la sindrome universalista che ne fa un soggetto proclive a contrattare con efficacia generale e a sollecitare la partecipazione agli scioperi anche dei non-iscritti ha resistito. Ma la cosa non stupisce. “La bipolarità del sindacato come libero soggetto di autotutela in una sfera di diritto privato e, al tempo stesso, come soggetto di una funzione pubblica è presente nella stessa Costituzione”. Parola di padre costituente: si chiamava Vittorio Foa.

Quindi, se l’Assemblea deliberò che il potere contrattuale collettivo è proporzionato alla consistenza associativa del sindacato che lo esercita (art. 39) è solo perché sapeva che bisognava marcare una netta cesura con l’esperienza corporativa ove il sindacato era un terminale della burocrazia statale. Per questo, giudicò opportuno enfatizzare quella che Max Weber definirebbe l’etica del consenso. Senza però l’intenzione di sacralizzarne l’esclusività. Anzi, un indicatore di natura elettiva capace di misurare l’ampiezza del consenso sociale oltre la sfera della rappresentanza associativa è il più aderente alla valenza istituzionale di un sindacato inclusivo come il nostro ed il più compatibile con i fondamenti di una democrazia. Come testimonia l’esperienza di diritto comparato, è un’ulteriore verifica che, sommandosi alla prima, irrobustisce la legittimazione del potere collettivo nella misura in cui permette di coniugare l’etica del consenso con l’etica (direbbe ancora Max Weber) della responsabilità politica.

La sindrome universalista del sindacato non appartiene soltanto all’ideologia o alla retorica. Se lo statuto dei lavoratori la sponsorizzò con l’art. 19 che voltava le spalle al sindacato “degli iscritti”, la legislazione della seconda metà degli anni ’90 – rimasta immodificata sul punto e anzi riciclata proprio dall’intesa che sto commentando – se ne è servita per disegnare l’identikit del sindacato “dei lavoratori”.

In proposito, è d’obbligo sottolineare che Massimo D’Antona considerava la legge che ha contrattualizzato in chiave privatistica la disciplina del pubblico impiego a stregua di un test aperto ad esiti atti a promuovere un generale effetto-imitazione: un laboratorio ove si sarebbe sperimentata la fattibilità di un più vasto programma di politica del diritto tendente a favorire la guarigione della democrazia sindacale dal male oscuro taciuto dal non-detto dello Statuto dei lavoratori che aveva dato scacco matto a generazioni di operatori giuridici e sindacali, perché nessuno poteva rispondere alle più elementari domande: del tipo “chi rappresenta chi”,  come si ottiene la legittimazione a firmare contratti collettivi e quale efficacia giuridica essi abbiano realmente. La prospettiva dell’interazione possibile tra pubblico e privato – dove il pubblico fa da apri-pista e il privato segue – è delineata nelle parole conclusive del saggio di Massimo che era ancora in bozze quando l’autore fu ucciso dalle Br: “Il nocciolo duro dell’art. 39 trova nella riforma della contrattazione collettiva nelle pubbliche amministrazioni il passaggio verso una nuova stagione della legislazione sindacale post-Costituzionale”.

Orbene, se quella è stata la manifestazione più significativa della persistente attualità della sindrome universalista del sindacato, a distanza di alcuni lustri l’incipit dell’intesa del 28 giugno ne costituisce una ulteriore  e non secondaria riprova. Riconfermare che “il contratto collettivo nazionale ha la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale” (punto 2) ha un significato forte. In una situazione caratterizzata da opzioni largamente favorevoli alla contrattazione aziendale, vuol dire riaffermare l’esistenza di una gerarchia dei livelli negoziali, per cui “la contrattazione collettiva aziendale si esercita per le materie delegate, in tutto o in parte, dal contratto collettivo di categoria” (punto 3). Sicuramente, è proprio per rafforzare l’autorevolezza del livello superiore nella sua pretesa di governare l’insieme delle politiche contrattuali che il punto 1 obbliga i relativi agenti contrattuali a certificare la propria rappresentatività in base a regole mutuate dalla legislazione vigente da alcuni lustri nell’area del pubblico impiego e predetermina la soglia al di sotto della quale non si acquista la legittimazione a negoziare.

Però, la trasposizione in sede pattizia del modello legislativo di riferimento è parziale. Non si dice come il contratto potrà essere stipulato. Non viene presa in considerazione nemmeno l’eventualità che possa ripetersi l’esperienza della contrattazione separata a livello nazionale che aveva affaticato la fase più recente dei rapporti sindacali; e l’omissione equivale alla scelta di non escluderla. In sostanza, tutto resta come prima.

Dunque, il discorso sulla contrattazione nazionale si spezza bruscamente, come un coitus interruptus sul più bello, e si passa ad altro. Il cuore dell’intesa, infatti, è la soluzione del problema dell’efficacia vincolante del contratto aziendale nei confronti di coloro che non sono sindacalmente organizzati o appartengono a sindacati non-firmatari. E’ il ritorno del tormentone esorcizzato, ma non rimosso, dell’estensione dell’efficacia oltre il perimetro tracciato dal diritto comune dei contratti tra privati, per il quale il contratto ha forza di legge solamente tra le parti.

Il problema, come ho già detto, è risolto prevedendo due forme di contratti aziendali: distinte per soggetti ed effetti prodotti. Per soggetti, perché agenti contrattuali possono essere tanto le RSU quanto le RSA. Per effetti, perché l’efficacia vincolante per tutto il personale del contratto firmato dalla RSU si produce col funzionamento di un semplice automatismo, mentre il contratto firmato dalla RSA è esposto al rischio della destabilizzazione in seguito ad un vaglio referendario a richiesta dei dissenzienti.

Vista la percezione negativa che si è guadagnata negli ambienti sindacali la prassi della validazione per via referendaria dei contratti collettivi, si potrebbe congetturare che il contratto firmato dalla RSU sia il più desiderabile. Tuttavia, l’intero castello non può reggere per deficit di base legale, perché condivide l’insostenibile leggerezza dell’autoreferenzialità di soggetti che si ritengono blindati dentro un ordinamento domestico sulla soglia del quale anche lo Stato deve arrestarsi, con le sue leggi e i suoi giudici, attribuendo una portata paralegislativa al loro bricolage negoziale.

Il passaggio dalla RSA statutarie alle RSU non è stato legificato e le RSU sono tuttora ciò che sono sempre state: figli sbandati di genitori sbadati, nati da accordi che hanno un’efficacia limitata a quanti volontariamente vi aderiscono. Ancora una volta, insomma, gli attori del sistema giuridico-sindacale si sono esercitati – e stavolta con più arditezza del solito – nel gioco del labirinto noto alla tradizione dell’enigmistica. Esso consiste nell’indovinare un percorso la cui meta è la scoperta d’una entità contraddittoria, come può esserlo un’organizzazione della società civile che, senza rinunciare alle sue radici extra-legali, aspira ad impadronirsi dell’autorità che è propria delle istituzioni riconducibili ai paradigmi categorizzati dal diritto dello Stato. Il labirinto, come si sa, ha molti falsi ingressi. Se ne sceglie uno a piacere, si fa un giretto e ci si ritrova subito fuori. E’ successo anche il 28 giugno. E non poteva non succedere perché l’efficacia estesa ai terzi è un predicato sconosciuto al diritto dei contratti. Per questo, malgrado l’impressionante numero di chiodi che sigillano la bara in cui è stato deposto e giace, l’art. 39 somiglia ad una stella morta da cui continua ad arrivare la luce, testimoniando con ciò che la sua inattuazione non gli impedisce di conservare attualità.

Poiché questo è il nodo irrisolto del diritto sindacale nel dopo-Costituzione, è presumibile che gli attori collettivi continueranno ad aggirarsi nel loro labirinto. E lo faranno non solo perché amano galleggiare nel limbo strategico che riescono a mascherare solamente coi cerotti dell’unità d’azione tra sindacati disposti a sottoporsi ad una cura omeopatica che li fa apparire omogenei e quasi eguali, ma anche perché – in presenza di una maggioranza parlamentare che ha certificato all’unanimità che Ruby è nipote di Mubarak – è opportuno che l’art. 39 resti dove la storia lo ha finora condannato a stare. Come dire che la sua persistente attualità non equivale (ancora) alla sua attuabilità.

Ad ogni modo, l’intesa del 28 giugno non è soltanto quel che a prima vista sembrerebbe: il remake di un film proiettato in più occasioni sullo schermo delle relazioni sindacali in Italia. La dinamica del negoziato è stata pesantemente influenzata da due illustri convitati di pietra: la Fiom e la Fiat. La loro presenza ha disseppellito e reso visibile un elemento costitutivo della contrattazione collettiva. Non c’è infatti contratto collettivo che non sia espressione della logica autodifensiva dei contraenti che ragionano da soggetti organizzati che vogliono durare e rafforzarsi proprio tramite l’azione contrattuale. Come il padrone non si siede al tavolo contrattuale coi sindacati per trattare la propria estinzione, così i sindacati partecipano alle trattative per riceverne la linfa necessaria per mettersi in sicurezza come organizzazioni.

Stavolta, la Confindustria era tenuta a difendere l’integrità di una membership insidiata dalla minaccia di secessione del suo associato simbolicamente più significativo e la Cgil doveva uscire dall’isolamento in cui, con la complicità di Cisl e Uil, era piombata in seguito all’emarginazione dal circuito contrattuale e che il ribellismo della Fiom aveva aggravato, aumentandone la risonanza mediatica.

Benché fosse sovra-rappresentata nella trattativa interconfederale di giugno, la Fiat si è dichiarata insoddisfatta. In primo luogo, le è toccato subire una clausola di tregua sindacale che lascia l’impresa in balia di scioperi spontanei (punto 6). In secondo luogo, si attendeva la ratifica “senza se e senza ma” degli accordi aziendali che hanno provocato un nutrito contenzioso giudiziario tuttora in corso ed invece ha dovuto accontentarsi di sentirsi dire che, se fossero stipulati adesso, sarebbero validi (punto 7).

Tuttavia, l’insoddisfazione della Fiom è, se possibile, superiore. Un po’ perché il punto 7 contiene il velato (ma mica tanto) rimprovero di non avere ascoltato il consiglio inizialmente suggerito dalla Cgil di tapparsi gli occhi davanti ad accordi del tipo “prendere o lasciare” e, pur di restare in gioco, apporvi una “firma tecnica”, e un po’ perché teme che la possibilità di praticare d’ora in avanti, e fin d’ora, una contrattazione aziendale in deroga possa orientare la magistratura verso un permissivismo lontano anni-luce dal clima di scontro che le vicende di Pomigliano e Mirafiori avevano creato nel paese. Per giunta, il diritto a coinvolgere i diretti interessati nei processi decisionali che preparano la sottoscrizione dei contratti collettivi a livello nazionale non è stato sancito e chissà se lo sarà. Vero è che l’istanza non è stata bocciata seccamente: l’intesa Cgil-Cisl-Uil allegata all’intesa del 28 giugno ne rinvia l’esame a momenti successivi che non promettono granché. L’istanza referendaria cui la Fiom non può non assegnare una valenza identitaria – dal momento che è alloggiata nel suo statuto interno – è in netta contro-tendenza. Il suo futuro è incerto sia perché nel frattempo si è radicato l’aristocratico e anacronistico convincimento che il sindacato sia un po’ mandatario e un po’ tutore e che il lavoratore non abbia la piena capacità d’agire, somigliando piuttosto ad un minorenne col complesso di Peter Pan, sia perché oggi più che mai è minoritaria l’idea che la politica non è solo comando, ma è anche mettere la gente nelle condizioni di governarsi da sé. Senza dire poi del timore di rovinosi impatti sulla carriera di dirigente sindacale che spiega la riluttanza di quanti esercitano per professione il potere di decidere “in nome e per conto” a interpellare governati arrabbiati o delusi e mettersi così in discussione. 

Nondimeno, la Fiom farebbe bene a chiedersi se non sia ragionevole dubitare che il coinvolgimento della base abbia necessariamente una virtù salvifica. Nei tempi bui di una crisi economica come quella che il paese sta attraversando, la contrattazione – segnatamente a livello aziendale – è e sarà tendenzialmente più ablativa che concessiva, generosa nel distribuire sacrifici e avara nel procurare vantaggi. Pertanto, la verifica del consenso ha e avrà un esito presumibilmente confermativo, nell’ampia misura in cui si svolge nel clima ricattatorio che favorisce il reato di estorsione. Non a caso, a Pomigliano e altrove il referendum tra i lavoratori è stato fermamente voluto prima di tutto dalla Fiat. E questa è una testimonianza molto persuasiva dell’esistenza di situazioni in cui, anziché espressione di un libero confronto democratico, il referendum sui contratti collettivi si converte nel sogno della sola democrazia possibile. Quella che ha parecchie delle caratteristiche di una democrazia imposta con la violenza. Come in Iraq o in Afganistan.

Venerdì, 22. Luglio 2011
 

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