Sarà perché viviamo una stagione ad alto indice di trasgressività nel pubblico e nel privato. Fatto sta che la cifra stilistica del linguaggio corrente ormai è liperbole. Tanto che consideriamo epocale qualunque avvenimento cui ci tocca assistere. Lo facciamo abitualmente. Quasi distinto e sempre più stancamente. E accaduto anche in occasione della vicenda Fiat. Non cè dubbio che, sfrondata dei suoi aspetti teatralizzanti, la vicenda sia dirompente. Essa apre una crisi di sistema. Le sue cause però preesistevano. Pertanto, la coazione a ricorrere alliperbole anche in questo caso è figlia dellidea che siamo venuti al mondo più per sopportarne le ambiguità che per denunciarle e fare tutto il possibile per cancellarle. Infatti, la vicenda Fiat estremizza gli effetti provocati dal cumulo di imperfezioni e approssimazioni, reticenze e lacune, ammiccamenti ed autocensure che non ha riscontro in esperienze sindacali confrontabili con la nostra.
Insomma, siamo entrati nella fase 2 del processo di de-costituzionalizzazione del sistema giuridico-sindacale italiano: niente di meno, ma neanche niente di più.
Come dire: ciò che davvero sbalordisce è la stoltezza o (dipende dai punti di vista) la furbizia od anche la spensieratezza con cui prima dora eravamo disposti a tollerare le ambiguità della fase 1. La quale, iniziata nella seconda metà degli anni 50 per uscire da un clima di speranze deluse, si è avvitata su di una prospettiva di politica del diritto incentrata sul primato dellautonomia privato-collettiva che non solo si discostava dalla tradizione sindacale comune ai paesi mittel-europei, ma anche dal documento costituzionale che ambisce a predeterminare uno schema di regolazione e sviluppo del fenomeno sindacale.
Anche se fosse vero che le Costituzioni possono subire senza conseguenze interventi di ortopedia giuridica, le ambiguità erano accentuate dallatteggiamento delle parti sociali che si servirono dellostracismo delleteronomia regolativa per giustificare anche la più intransigente opposizione allintervento legislativo. Mai, in realtà, una corrente dopinione tanto estranea sia alla memoria storica che al disegno costituzionale ha ottenuto un successo tanto durevole e, al tempo stesso, di facciata come in questo caso. Ma la cosa si spiega. La verità è che, sia pure a livelli differenti di consapevolezza, tutti riconoscevano che la finalità prioritaria nel periodo immediatamente successivo alla rottura della Cgil unitaria fosse la costruzione di una neo-lingua capace di restituire ad interlocutori prigionieri di un eccesso dinimicizia la possibilità di parlarsi senza scadere nella rissa, ponendoli nella condizione di sbloccare una situazione di incomunicabilità.
Il più veloce a capirlo, tra gli intellettuali darea giuridica, è stato Gino Giugni, cui si deve lelaborazione di una proposta culturale di alto profilo che fa di lui un politico prestato al diritto, come amava auto-definirsi. Pur corrispondendo a ciò che soprattutto la Cisl voleva sentirsi dire, un poco alla volta la sua teorizzazione sedusse anche la Cgil, un poperché nessuna delle due organizzazioni conosceva il mestiere del sindacato in un regime di libertà tipico di una democrazia costituzionale e un poperché entrambe dovettero persuadersi che la decisione di imparare a comportarsi da carissimi nemici, enfatizzando ciò che li univa e minimizzando le ragioni della loro separatezza, era preferibile ad una rovinosa concorrenzialità. Naturalmente, pur restando ciascuna di esse attentissima a non alterare in maniera irreversibile la propria identità politico-culturale, rinunciavano a qualcosa in vista di sostanziosi guadagni. Così, ed era ciò che più contava, la Cisl allontanava il rischio dellattuazione del 4° comma dellart. 39 della Costituzione che avrebbe certificato con burocratica freddezza la sua minorità numerica specialmente nel settore industriale, e la Cgil poteva avvalersi dellappoggio della Cisl per rinviare sine die lattuazione dellart. 40 che, stante la sua vocazione classista, avrebbe penalizzato soprattutto lei.
Il risultato non poteva essere che il primitivismo di un sistema giuridico-sindacale, dove si praticava il culto della governance consensuale gestita in una cornice di totale informalità. Culto, dico, perché la governance non era intesa come uno strumento; era il fine; e ciò dal momento che per governance sintendeva il complesso delle modalità di gestione del potere contrattuale collettivo, indipendentemente dalla ragione per cui esso acquista una rilevanza costituzionale e dunque a prescindere dal fatto che, agli occhi dei padri costituenti, la contrattazione collettiva è il vettore privilegiato dellistanza egualitaria che percorre il mondo del lavoro: unistanza da soddisfare con la garanzia dellinderogabilità dei trattamenti minimi corrispondenti ai parametri fissati dallart. 36 e coi meccanismi che li avrebbero resi vincolanti erga omnes nella Repubblica una e indivisibile.
Per questo, come non si stanca di ripetere Gian Primo Cella, lunità dazione è stata una vera e propria alternativa funzionale alla mancata applicazione del 4° comma dellart. 39. Essa rendeva possibile leguaglianza nel mondo del lavoro, nel significato che in piena sintonia col più elementare senso comune la giurisprudenza riteneva coessenziale al contratto nazionale presumendo che il consenso sociale di cui sono portatori i sindacati firmatari sia lindicatore meno controvertibile delladeguatezza del trattamento pattuito allidea di eguaglianza dignitosa accolta dalla Costituzione (art. 36). Per quanto inespressi, gli schemi cognitivi dellepoca accostavano quel contratto ad un grande serbatoio idrico provvisto dellimpianto capace di trasformare lenergia potenziale dellinvaso in energia cinetica e di far arrivare lelettricità in tutte le abitazioni, anche le più periferiche, come è dobbligo per i preposti allerogazione di un servizio di pubblica utilità. Per questo, con buona pace del principio per cui i contratti tra privati si applicano soltanto agli stipulanti, i giudici erano del parere che il contratto nazionale si applicasse anche ai povericristi senza-tessera. Essi derogavano deliberatamente al principio del diritto comune perché sapevano che il contratto nazionale con una sfera di efficacia circoscritta ad un terzo o poco più degli interessati era in sofferenza come un animale azzoppato, ma era il prezzo da pagare per ammorbidire la minaccia della dis-unità sindacale.
Riassumendo. Abbiamo tollerato un pluralismo sindacale inautentico e diplomatizzato che idoleggiava il ritualismo consensualistico fino allossessione dellunanimismo. Linsostenibile leggerezza di una rappresentatività senza rappresentanza e linfondato orgoglio del suo contrario. Libridismo irrisolto di un processo di privatizzazione del diritto collettivo che si giovava delle categorie tecnico-concettuali legificate in età corporativa pur sviluppandosi in polemica col fascismo. Lincompiutezza della transizione della forma-sindacato dalla rappresentanza politico-istituzionale ereditata dalla Repubblica alla rappresentanza di matrice privato-associativa, familiare alla storia sindacale anglosassone.
Linconfessabile aspettativa che tutto ciò non avrebbe interrotto il processo di omologazione del sindacato alle istituzioni in bilico tra pubblico e privato né ostacolato lequiparazione alla legge del contratto collettivo regolato dalla prassi e sconosciuto al diritto scritto. Il falsificante pregiudizio che la Costituzione riguardasse solo la forma di governo e le duecento parole della prima parte della medesima fossero ininfluenti sulle relazioni intersoggettive.
Infatti, come ha scritto Vittorio Foa, per molto tempo il sindacato ha visto nelloperaio solo un operaio, un produttore subalterno da difendere nel suo rapporto col lavoro e da rappresentare nei suoi interessi materiali, e perciò non ha visto gli altri versanti della sua vita: poi (si è) stupito quando non ha dato più ascolto ai (suoi) discorsi. Peraltro, i giuristi del lavoro potrebbero testimoniare che anche la cultura giuridica ha tardato a percepire che la figura del cittadino-lavoratore dove laccento cade non tanto sul cittadino quanto piuttosto sul lavoratore è compatibile meno con una Repubblica fondata sul lavoro che con una società in cui il lavoro salariato, come scrive Ulrich Beck, costituisce la cruna dellago attraverso la quale tutti devono passare per poter essere presenti nella società come cittadini a pieno titolo. Per questo, quantunque la Costituzione avesse spostato il centro gravitazionale della figura del cittadino-lavoratore, leresia giuridica secondo la quale lo stato occupazionale e professionale acquisibile per contratto è il prius e lo status di cittadinanza sociale il posterius ha seguitato a godere di vasti consensi.
Solamente lo Statuto segnò un nuovo inizio. Concedendo al cittadino che lavora molto di più di ciò che può dargli il diritto dei contratti, permetteva di riconoscere in lui lesemplare più evoluto della razza degli uomini solo formalmente liberi che irruppero sulla scena della prima modernità e iniziarono la ricerca di un diritto allaltezza delle loro speranze. Viceversa, i radar a disposizione dei sindacati e del ceto professionale degli operatori giuridici non ne hanno nemmeno registrato la presenza o lo hanno perduto di vista in fretta e il nuovo inizio segnato dallo Statuto ha avuto una fine precoce.
Successivamente, infatti, lazione sindacale e il pensiero giuridico dominanti hanno appiattito lorizzonte di senso del provvedimento sulla prevaricante esigenza di fronteggiare e circoscrivere le conseguenze più indesiderabili del secondo biennio rosso. Pertanto, la risorsa-Statuto è stata utilizzata per accelerare il processo di mutazione genetica che, nelle intenzioni della classe dirigente, avrebbe dovuto avvicinare la società italiana allideal-tipo della società industriale. Non a caso gli elementi costitutivi dellordito statutario che attireranno la maggiore attenzione sono lostilità verso lo spontaneo, la cautela verso lindividuale ed un sostegno blandamente condizionato al collettivo affidabile, ossia organizzato e strutturato. Il fatto è che si condivideva il proposito di legittimare soltanto il sindacato in grado di riportare sotto controllo lindistinto protagonismo di massa che aveva caratterizzato una sequenza di lotte sociali senza precedenti per intensità e durata, perché la conflittualità è un dato fisiologico del sociale soltanto se è governata dal sindacato. Del resto, perché sorprendersi se nella Repubblica dei partiti lo Statuto ha arricchito più il patrimonio giuridico dei sindacati che quello dei cittadini nel luogo in cui lavorano?
Sono sicuro che, analizzando in profondità le criticità testé enumerate, si finirebbe per accertarne la stretta connessione. Hic et nunc, tuttavia, mi limito a proporre una riflessione meno apologetica del solito sulla tendenza evolutiva di fondo del sistema giuridico-sindacale nel dopo-costituzione.
A lungo si è creduto che il provvisorio fosse diventato permanente. In tanti, anzi, se lo auguravano, perché consentiva al sindacato di sommare ai vantaggi che procura la libertà di cui godeva nella sua qualità di libero soggetto di autotutela in una sfera di diritto privato i privilegi che accompagnano la titolarità di una funzione di pubblico interesse. Viceversa, il sistema era tenuto insieme da poco più che spago e chiodi. Infatti, si reggeva più sulla paura del dissenso tra i suoi attori principali che sul loro consenso più sul non-disaccordo che sullaccordo ed ha retto finché la-conflittualità tra i sindacati maggiori è stata il bene primario per conseguire il quale erano disposti a ragionevoli compromissioni e reciproche contaminazioni. Ciò non toglie che si chiudesse un occhio, e spesso tutte due, sullanomalia di una unità dazione indebolita da diffidenze, sospetti, avversioni represse o stemperate che affioravano come un fiume carsico, facendo riemergere radicati pregiudizi.
Infatti, il fragile equilibrio basato sui convenzionalismi del non-detto, del si fa ma non si dice e del si dice ma non si fa, si è spezzato non appena sono maturate le condizioni per buttare allaria quel che si era ambiguamente costruito. E bastata la spallata di un global player spregiudicato e aggressivo per risvegliare i contrasti rimossi e mettere a nudo che essi non incontrano nel diritto positivo né argini né limiti né procedure di composizione. Per questo, ritorna lillusione del valore salvifico del bricolage della medesima giurisprudenza che è stata lalma mater di quellassemblaggio senza sintesi di cui nel dopo-Costituzione ci siamo abituati a parlare come se fosse un ordine sistemico non tanto in contrapposizione col disegno tracciato dallAssemblea costituente quanto piuttosto malgrado linattuazione del medesimo. Come dire: maestra senza discepoli, la storia non ha insegnato che linevitabile episodicità di un decisionismo giudiziale privo di solidi punti di riferimento, e perciò con larghi margini dimprevedibilità, è il sintomo più evidente della povertà del lessico di base del diritto sindacale ed insieme dellesigenza di riprogettarlo. Dopotutto, non è con laspirina che si cura una polmonite.
Nondimeno, adesso le cose si sono terribilmente complicate perché, ha osservato Stefano Rodotà, quello che intercorre tra il giorno dellapprovazione della Costituzione e il giorno della sua attuazione non è un periodo che possa essere ignorato, quasi fosse una parentesi chiusa la quale si torna alla purezza delle origini. Ossia: poiché niente può cambiare ciò che è stato, oggi è impossibile prescindere dallinutile necessità di un processo storico che ha visto affermarsi le forme volontarie e auto-legittimate dellorganizzazione sindacale e della contrattazione collettiva.
Eppure, accorciare le distanze dallo schema prefigurato dalla madre di tutte le leggi si deve: è una questione di sopravvivenza dei valori costitutivi dellautonomia privato-collettiva solidarietà, coesione sociale, giustizia distributiva la cui realizzazione è ostacolata dal tramonto dellunità dazione persino nelle esangui forme per laddietro praticate. Se il tentativo riuscirà, vorrà dire che si è finalmente smesso di dribblare la sfida della coesistenza schiettamente competitiva tra un sindacato che, alla medesima stregua di qualsiasi aggregato associativo operante con la cultura della membership, predilige la logica del diritto comune dei privati, e perciò predica la superiorità della contrattazione collettiva sganciata dalla legge, ed un sindacato che non intende rinunciare alla figura del contratto collettivo con efficacia para-legislativa, e perciò si rifiuta di disfarsi della sua strutturale bipolarità, persuaso che senza di essa non sarebbe né un minus né un plus: ma soltanto un aliud. Sarebbe altro-da-sé.