Il lavoro e la normalità dell’assurdo

La maggior parte dell’opinione pubblica accetta ormai come ragionevole e ineluttabile la compressione dei diritti e della qualità della vita dei lavoratori. Non ci sono soluzioni facili per problemi difficili, ma alcune linee guida andrebbero seguite

Le vicende Fiat, Pomigliano prima ed ora Melfi, ma tra poco Termini Imerese e via via emergenziando, riscuotono giornalisticamente un grande successo. Ci sono tutti gli ingredienti per le cronache: gli operai licenziati, lo scontro tra le rappresentanze, Fiom e Fiat, i destini industriali del paese, i vincoli ineluttabili della competitività globale.

 

Ma gli operai non erano scomparsi, secondo la stessa vulgata giornalistica? Come mai oggi per il progresso del pianeta occorrono ancora le loro disponibilità?  Che siano individuali o mediate dalle rappresentanze sindacali poco importa, purché “flessibili” qui nei paesi di antica industrializzazione e parimenti nei paesi di industrializzazione più recente

 

E’ la logica del minor costo del  minor costo che guida queste richieste degli investitori facilitate dalla  globalizzazione delle tecnologie e dei sistemi organizzativi. Questa logica è facilitata dall’assenza di una efficace tutela a livello globale  dei diritti umani e,  per quanto concerne i lavoratori, dei diritti sindacali essenziali: il diritto di organizzarsi in sindacati liberi e il diritto di contrattazione.

 

Ci sono aspetti che la pubblicistica in corso sul tema presenta come dati di fatto immodificabili e oggettivi: che in Cina centinaia di milioni di lavoratori vivano con salari di pura sopravvivenza, senza efficaci diritti sindacali, con orari di lavoro insostenibili e senza protezione sociale viene presentato come un termine di riferimento imprescindibile per la competitività.

 

Che ci siano paesi nei quali i sistemi di protezione sociale siano praticamente inconsistenti e per questo motivo il prelievo fiscale e della contribuzione sociale viene ridotto e che, per questa via, i livelli salariali e le tasse sui guadagni industriali ridotti è presentato come un elemento che giustifica la scelta di investimento e la delocalizzazione della produzione.

Lo stesso fatto che la Germania abbia una industria nei settori dei beni d’investimento e di consumo tra le prime del mondo nonostante gli orari di lavoro tra i più ridotti, i salari tra i più elevati, un sistema di welfare esteso ed efficiente e sindacati potenti e rappresentativi, viene ignorato nel confronto internazionale.

 

Qualificati ed autorevoli studiosi vanno sostenendo che i criteri che guidano le scelte industriali di investimento e di localizzazione delle produzioni della Fiat siano per così dire oggettivi. Di conseguenza non ci sarebbe da stupirsi che le metodiche del lavoro e l’organizzazione dello stesso debbano essere considerati dei vincoli dai quali non si può prescindere. I lavoratori obtorto collo devono sottostare a queste regole se vogliono meritare gli investimenti e la salvaguardia dei posti di lavoro. Sarà anche per questo che la sinistra, a parte quella “passatista” e avviata da tempo a seguire la strada delle “belle sconfitte”, non riesce ad offrire idee che non siano varianti del “patto dei produttori”.

Questa, nella situazione attuale, è nei fatti una proposta con la quale si cerca di rinviare i problemi e scaricare sui lavoratori di altre aree del mondo i costi dell’aggiustamento corporativo qui ed ora.

 

Non ci sono vie facili per risolvere o tentare di avviare soluzioni positive e ragionevoli di problemi difficili. Lo squilibrio di potere tra capitale e lavoro è l’aspetto che nella globalizzazione, così come è avvenuta e va procedendo, emerge con evidenza talvolta drammatica. Le rappresentanze del lavoro, sia quelle sindacali che quelle di tradizione laburista e socialista, non sono mai state così deboli.

 

Negli anni ’70, di fronte a processi di decolonizzazione e di sviluppo industriale nei paesi in via di sviluppo, in particolare in America latina, ci fu una capacità di elaborazione (come il Rapporto Brandt sulla cooperazione internazionale) e di solidarietà attiva dei sindacati di paesi industrializzati verso i lavoratori del cosiddetto Terzo Mondo (Sudafrica e Brasile come esempi principali). Oggi con problemi altrettanto ampi e drammatici non si trova traccia di azioni di solidarietà e di elaborazione all’altezza della situazione .

 

L’Organizzazione Internazionale del lavoro (Oil) ha elaborato negli anni scorsi, con l’ausilio di autorevoli personalità, un documento dal titolo significativo: “La dimensione sociale della globalizzazione”. Lo studio metteva in risalto squilibri e contraddizioni nel processo in atto e indicava un insieme di misure che andavano rapidamente prese per correggere l’andamento negativo per i lavoratori e per l’intera società. E’ stata pure lanciata la campagna “Lavoro Dignitoso per una Vita Dignitosa” (Decent Work  Decent Life) con il concorso anche della Unione Europea, ma ha scosso ben poco le coscienze e le organizzazioni sociali e politiche. Ma è necessario partire da questi argomenti per dare speranze in un futuro di maggiore eguaglianza e opportunità per tutti.

 

Quale mondo vogliamo nel futuro? Un mondo dove prevale la logica di progressiva riduzione dei diritti e peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro spacciata per esigenza di competitività?

 

Per correggere quella che sembra una china inarrestabile (ci sono ormai esempi innumerevoli di lavorazioni che vengono spostate in relazione al progredire dei diritti sindacali tra i paesi poveri) è necessario un programma su molti piani: nelle istituzioni multilaterali, e le loro norme vanno riviste in funzione di una efficace protezione dei lavoratori, nei singoli paesi perché adottino normative che rendono concreti i diritti dei lavoratori solennemente sottoscritti  nelle convenzioni dell’Oil e perché si facciano promotori dei cambiamenti conseguenti nelle istituzioni multilaterali. Far diventare questi aspetti parte dei programmi e dell’azione concreta dell’Internazionale Socialista e più in particolare delle rete Global Progressive Forum che raggruppa organizzazioni sociali, partiti politici, Ong progressiste a livello globale.

 

Dal canto loro i partiti politici nazionali che si richiamano alla tradizione del cattolicesimo sociale e a quella laburista e socialista dovrebbero impegnarsi a sostenere le politiche che intendono allargare le idee di solidarietà, di uguaglianza e dei diritti per tutti e comprenderli nei loro programmi politici. Sostenere la internazionalizzazione delle organizzazioni sindacali, con il potenziamento della International Trade Union Confederation (Ituc) che va dotata di risorse per alimentare i programmi di sostegono e sviluppo dei sindacati a livello globale. Incidere più significativamente con la contrattazione nelle aziende multinazionali potenziando i coordinamenti sindacali esistenti ed estendendoli nel maggior numero di imprese possibile comprese le cosiddette “multinazionali tascabili”.

 

In particolare sembra sempre più necessaria la contrattazione di diritti sindacali omogenei in tutti i paesi per le singole multinazionali e una contrattazione allo stesso livello per le metodiche del lavoro e dell’organizzazione del lavoro. E questo vale in particolare per il gruppo Fiat per i problemi di concorrenza tra stabilimenti che l’assenza di regole comuni ha messo in moto.

 

Sono aspetti, questi, di grande complessità ma inevitabili se si vuole incidere significativamente sui livelli di uguaglianza e dare speranza di un mondo più giusto dove lavoro dignitoso e vita dignitosa siano sinonimi di vero progresso.

Lunedì, 20. Settembre 2010
 

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