Chi avvantaggia il quoziente familiare (8 commenti)

Progetti di legge sulla tassazione agevolata per la famiglia sono stati presentati da entrambi gli schieramenti. Ma così come sono concepiti finirebbero per premiare esclusivamente le famiglie mono-reddito, con figli a carico e redditi medio-alti e alti

Credo di non sbagliare se immagino che uno dei principali argomenti della “campagna d’autunno” che Berlusconi dovrà necessariamente avviare, soprattutto allo scopo di distrarre l’attenzione pubblica dal persistere della crisi economica e occupazionale che ancora attanaglia il paese, sarà rappresentato dalla riproposizione di un tema più volte evocato e mai compiutamente affrontato: quello relativo agli interventi a sostegno delle famiglie. Tra l’altro, la materia rappresenterebbe un ottimo viatico per riconquistare la benevolenza delle gerarchie d’oltretevere, sempre tese - in nome della ben nota realpolitik vaticana - a operare con discrezione e “umana comprensione” nei confronti degli interlocutori politici di turno in grado di offrire adeguate “contropartite” (testamento biologico, finanziamenti alle scuole private, unioni di fatto, ecc.).

 

Naturalmente, partendo dal presupposto che ciascun tipo di provvedimento non potrà prescindere da opzioni di carattere prettamente “politico” - dalla determinazione dell’unità impositiva di riferimento, alla quantificazione del gettito fiscale complessivamente perseguibile, senza dimenticare il “target” di riferimento da privilegiare - le soluzioni possibili sono abbastanza diversificate. Allo stato, le più “gettonate” sono due; la terza, avanzata da Alberto Alesina e Andrea Ichino, appare un’ipotesi “di scuola”, difficilmente applicabile e destinata probabilmente a raccogliere scarso seguito. La prima prevede l’istituzione del “quoziente familiare”; la seconda ipotizza il ricorso a una “imposta negativa” e la terza, sicuramente la più “intrigante”, prevede una tassazione differenziata per sesso.

 

Considerando la richiesta avanzata dalla stessa Conferenza episcopale italiana e del sostegno bipartisan del quale gode il quoziente familiare - da Berlusconi ad alcuni autorevoli esponenti del Pd, senza dimenticare Pier Ferdinando Casini, che ne ha fatto argomento di propaganda politica nel suo tour “sotto gli ombrelloni” – esaminiamo la prima ipotesi in discussione.  Quanto alle altre, ci limitiamo a rilevare che l’eventuale adozione di un sistema a imposta negativa determinerebbe - in pratica - il riconoscimento di un “credito d’imposta” a quei contribuenti che si trovassero nella condizione di avere titolo a detrazioni superiori all’imposta a debito. Tale strumento - così come adottato nel Regno Unito, nella versione “Child Tax Crediti” - ha rappresentato un efficace incentivo alla partecipazione delle donne al mondo del lavoro. L’altra soluzione, che in sostanza consisterebbe nel prevedere - a parità di reddito - un’imposta maggiore a carico degli uomini rispetto alle donne, rappresenterebbe anch’essa un incentivo a una maggiore partecipazione delle donne al mondo del lavoro. Il limite sarebbe rappresentato dal superamento del principio della cosiddetta equità “verticale” (oltre che “orizzontale”) delle imposte nei confronti dei contribuenti.

 

In effetti, la soluzione tanto cara a coloro i quali partono dall’assunto secondo il quale qualsiasi provvedimento che abbia come riferimento la “famiglia” sia da condividere “a prescindere” - senza, peraltro, porsi il problema di una realtà sociale che renderebbe indispensabile una sua più precisa (e attuale) definizione - tende a modificare il vigente sistema di tassazione del reddito, tornando a una sorta di “cumulo” pre-1976. Risale appunto a quell’anno la sentenza attraverso la quale la Corte Costituzionale bocciò il cumulo dei redditi dei coniugi ai fini dell’imposta progressiva (Irpef),. La decisione fu dettata, in particolare, da due importanti considerazioni: il cumulo negava alla moglie lo status giuridico di contribuente autonomo e finiva per attribuire un vantaggio fiscale alle convivenze rispetto al matrimonio. Da quella data, l’“unità impositiva” divenne l’individuo e il numero delle persone a carico, nonché quello dei percettori di reddito presenti nell’ambito familiare, furono considerati in un complesso sistema di “detrazioni “ e “deduzioni”.

 

Tornando al quoziente familiare: le proposte presenti in Parlamento, l’una del centrodestra e l’altra dell’ex centro-sinistra, si pongono l’obiettivo di sostituire le attuali “detrazioni per carichi familiari” con un sistema destinato a ridurre il reddito soggetto ad imposta - applicando, in pratica, un’aliquota più bassa - all’aumentare del numero dei componenti il nucleo familiare. In sostanza, si tratterebbe di sommare i redditi di tutti i componenti il nucleo familiare e dividerne l’ammontare per un “numero rappresentativo” (quoziente familiare) dello stesso; al valore ottenuto, esemplificativo del reddito pro-capite, si applicherebbe l’attuale scala delle aliquote Irpef e il risultato, rimoltiplicato per il numero delle “quote”, rappresenterebbe il valore dell’imposta finale.

 

Il quoziente familiare da riconoscere all’unità impositiva rappresenterebbe la sommatoria dei singoli “coefficienti” riconosciuti a ciascun componente il nucleo familiare. In Francia, ad esempio, paese nel quale l’unità impositiva ai fini fiscali è, da sempre, la famiglia, e il quoziente familiare - adeguatamente limitato con la fissazione di un “tetto”, per evitare di favorire troppo i redditi più alti - rappresenta una realtà consolidata, a ciascuno dei coniugi (così come alle coppie di fatto), indipendentemente dal fatto che siano o no percettori di reddito personale, si assegna un coefficiente pari a una unità. A ciascun figlio minorenne sono assegnati 0,5 punti e, a partire dal terzo figlio, un punto intero. In definitiva, un nucleo familiare nel quale dovessero essere presenti entrambi i genitori e quattro figli minorenni, presenterebbe un quoziente familiare pari a 5 (1+1+0,5+0,5+1+1). Appare chiaro che, nel caso francese, l’intento del legislatore fu di ritenere una “variabile indipendente” l’eventuale presenza di un doppio reddito familiare e, contemporaneamente, riconoscere una consistente premialità ai nuclei con almeno tre figli.

 

Nel nostro paese, le proposte di legge presentate dall’attuale e dall’ex maggioranza di governo, per passare - attraverso l’adozione del quoziente familiare - a un tipo di tassazione su base familiare piuttosto che individuale, in sostanza, non differiscono molto l’una dall’altra. La più evidente (e inammissibile) differenza - che conferma qual è il significato (univoco) che la destra italiana e le gerarchie vaticane attribuiscono al termine “famiglia” - è rappresentata dal diverso “peso” dei coefficienti assegnati ai componenti il nucleo familiare. Vale la pena di rilevare che, nella proposta del Centrodestra, un genitore vedovo godrebbe di un quoziente maggiore, e quindi di un vantaggio fiscale superiore, rispetto a quello del genitore non coniugato, separato o divorziato.

 

Inoltre, quella dell’ex centro-sinistra, a onor del vero, nel prevedere l’introduzione di una soglia di reddito oltre la quale il quoziente familiare non si applica e una clausola “di salvaguardia”, per quanti risultassero svantaggiati dall’applicazione dello stesso, conferma - in modo clamoroso ed inequivocabile - la consapevolezza dei rischi e delle contraddizioni di una riforma che, a mio parere, produrrebbe effetti collaterali molto gravi.

 

In effetti, con il ricorso alla soluzione prospettata, che pur applica il legittimo principio secondo il quale all’aumentare del numero dei componenti il nucleo familiare è giusto e opportuno ridurre il reddito soggetto a imposta, si realizzerebbe, in pratica, una condizione di redistribuzione di ricchezza a danno di coloro che già patiscono redditi bassi. Infatti, così come previsto dalle ipotesi di riforma, il meccanismo del quoziente familiare “all’italiana” - contrariamente a quanto si verifica nella tanto evocata Francia, che dispone, tra l’altro, di una diversa struttura delle aliquote e di un maggior numero delle stesse, più concentrate verso il basso - finirebbe col ridurre la progressività dell’imposta e produrre un vantaggio esclusivamente a favore delle famiglie mono-reddito, con figli a carico e redditi medio - alti e alti.

 

A questo riguardo, tutti gli esperti in materia sono concordi nel sostenere che l’adozione del quoziente familiare produce una serie di distorsioni da non sottovalutare; anche se il semplice termine “familiare”, legato al meccanismo del quoziente, determina incontrollate pulsioni tra i tanti “teocon”, “teodem” e “atei devoti” che ingolfano il Parlamento italiano. In realtà, secondo le proiezioni elaborate dagli esperti, applicare la riforma in discussione - fermo restando il vigente regime fiscale - produrrebbe i seguenti effetti:

a) il vantaggio maggiore sarebbe realizzato dai contribuenti con elevato reddito e coniuge privo di occupazione. Infatti, la riduzione dell’imposta sarebbe tanto più rilevante quanto maggiore il differenziale tra un reddito alto (di uno dei due coniugi) e un altro basso o, addirittura, pari a zero;

b) il vantaggio fiscale sarebbe molto contenuto nel caso di due coniugi, entrambi lavoratori, con un differenziale di reddito più ridotto.

c) il beneficio sarebbe addirittura nullo nel caso di due coniugi percettori di redditi bassi.

Tra l’altro, quello che è sottotaciuto dai “paladini” del quoziente familiare, è il sostanziale disincentivo fiscale che una riforma di questo tipo determinerebbe rispetto all’offerta di lavoro femminile.

 

Si pongono quindi alcune considerazioni di carattere tecnico, politico e sociale. Dal primo versante, appare chiaro che è preferibile l’attuale sistema basato sulle detrazioni per carichi di famiglia. Se effettivamente si vogliono aiutare le famiglie più numerose, è sufficiente aumentare le detrazioni oggi vigenti e, perché no, rivedere i livelli di reddito che determinano (o no) la percezione dei famosi “assegni per il nucleo familiare”.

 

In secondo luogo, considerato che, da un punto di vista normativo, il sistema di tassazione dovrebbe essere “neutrale” rispetto alle forme di convivenza e alla formazione dei vincoli familiari, mentre l’applicazione del quoziente familiare è particolarmente vantaggiosa per i nuclei familiari “regolarmente costituiti” - così come (manchevolmente) oggi definiti, ai fini civili e fiscali - ne consegue che il ricorso a questo strumento finirebbe con lo svolgere un’azione condizionante (e impropria) rispetto allo “stato civile” della coppia. In Francia, come già anticipato, allo scopo di attenuare la “non neutralità” del sistema rispetto alle diverse forme di convivenza, i vantaggi fiscali riconosciuti alle coppie legalmente sposate sono estesi anche alle “coppie di fatto”.

 

Personalmente, sarei pronto a scommettere che, nel nostro paese, l’eventuale adozione di una riforma di questo tipo finirebbe con il riconoscere diritti e benefici unicamente all’ormai mitica “famiglia”; continuando a ignorare una realtà sociale che è ben più diversa e articolata rispetto al classico nucleo “marito-moglie-figli” (legalmente riconosciuto).

 

In estrema sintesi, ritengo che il ricorso al quoziente familiare - di là dei possibili beneficiari e delle inevitabili distorsioni, in termini di equità orizzontale e verticale delle imposte - nasconda l’intenzione di varare una sorta di “incentivo fiscale al matrimonio”. Si tratterebbe, in sostanza, di un intervento di carattere “moralistico”, piuttosto che di una “neutrale” e oculata scelta di politica fiscale a sostegno delle famiglie, di tutte le famiglie!

 

 
Commenti
 
Ruggero Paladini - Sono sostanzialmente d’accordo con quello che si dice nell’articolo. Alcune puntualizzazioni: lo scopo principale non è l'incentivo al matrimonio (quello è secondario), ma diminuire il peso dell'Irpef per coloro che hanno redditi alti, il coniuge (cioè la moglie) casalingo(a), e figli minori. Si tratta cioè di un obiettivo volto ad attenuare il grado di progressività dell'imposta. Non credo che il governo potrà seriamente prendere in considerazione il quoziente, per la banale ragione che costa troppo; magari farà finta.
 

Carlo Clericetti - Un problema di equità orizzontale si pone già oggi tra lavoratori dipendenti e autonomi, ai quali in vari casi è permesso lo splitting (divisione del reddito imponibile tra marito e moglie, anche se di fatto lo produce solo uno dei due). Inoltre la curva delle aliquote è molto ripida, almeno fino a 60.000 euro, dove la progressività scompare del tutto (quanto al fatto che al di sopra di questa cifra ci sia sì e no il 3% dei contribuenti, ci può credere solo l'Agenzia delle Entrate). Il quoziente familiare ha certo effetti non desiderabili, ma non è che il sistema attuale sia molto meglio.

 

Ruggero Paladini - Caro Carlo,  penso che, parlando di splitting, tu ti riferisca alle aziende familiari, presenti sia in agricoltura che nei servizi (commercio al dettaglio). Vi sono varie regole: vi devono lavorare solo familiari entro il quarto grado, metà del reddito deve essere attribuito al titolare della ditta ecc....Sicuramente vi sono degli abusi, ma il vero problema è l'evasione. Quanto alla scamparsa della progressività a 60.000 ti sbagli. Un lavoratore single (dipendente o autonomo che sia) ha un'aliquota marginale del 41% ed una media del 32% (l'elasticità, che misura la progressività) è di 1,28. La curva è ancora in salita quindi, anche se meno di quanto non accada ai livelli più bassi.
 
Carlo Clericetti - Sì, mi riferivo alle aziende familiari (appunto pertinenti all'argomento dell'articolo): come dici anche tu, il titolare ha la facoltà di dimezzare il suo reddito, dunque di abbattere l'aliquota. Quanto alla curva, mi sono espresso in modo un po' radicale, ma cambiando "scompare del tutto"  con "scompare sostanzialmente" mi pare che ci siamo. Qual è il coefficiente di elasticità da 20.000 a 60.000? E l'1,28 rimane da 60.000 a Berlusconi?

 

Ruggero Paladini - Tra 20 e 60 l'elasticità oscilla tra 1,8 e 1,6. Poi ovviamente tende a diminuire. Ad esempio a 120.000 è 1,15, che però è ancora una elasticità abbastanza alta. Naturalmente arrivati a papi è diventata 1,00...1, ma non può che essere così, visto che l'aliquota massima è a 43%.

 

Carlo Clericetti - Mi pare che questi dati confermino quello che dicevo. La curva delle aliquote è molto ripida fino a 60.000 euro, poi rallenta fino a diventare praticamente piatta per i redditi molto alti.


Fernando Di Nicola - Vorrei aggiungere un argomento contro il quoziente "familiare": questo meccanismo sostiene i carichi familiari solo indirettamente e quasi involontariamente, essendo la sua certa funzione quella di eguagliare, orizzontalmente, la progressività per reddito equivalente anzichè orizzontale. Sembra un'astrazione, ma non lo è affatto: nuclei a basso reddito con figli non traggono nessun beneficio o quasi dal quoziente, mentre coppie senza figli ma con redditi alti e differenziati ne traggono grossi vantaggi. Dunque, se l'obiettivo è tarare la progressività in base ad una capcità contributiva identificata dal reddito equivalente, piuttosto che da quello individuale, allora ben venga il quoziente (si fa per dire, perché deprime il tasso di occupazione femminile). Se invece l'obiettivo è sostenere i carichi familiari, allora esistono strade diverse e ben più efficienti (assegni, bonus vari, oneri detraibili, ecc.).

Maurizio Benetti

- Condivido quanto afferma Ruggero Paladini sul quoziente familiare. E' una misura che avvantaggia i redditi medio-alti e alti e che corre il rischio di discriminare le diverse forme familiari oggi esistenti. Carlo Clericetti pone un altro problema, quello della progressività dell'Irpef. Il problema non sono le due aliquote più alte (semmai gli scaglioni di reddito al quale sono applicati), ma le aliquote più basse che sono troppo elevate e rendono particolarmente elevata la progressività per i redditi bassi e medi. Una riforma dell'Irpef deve affrontare questo punto, ma per farlo in modo sostanziale occorrono risorse elevate che comportano una riforma complessiva di tutto il sistema fiscale.

Mercoledì, 30. Settembre 2009
 

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