Come far crescere le nostre imprese

Guido Rey ha ragione ad affermare che il problema italiano riguarda l’offerta. Uno dei problemi delle imprese è la piccola dimensione, e la bassa capitalizzazione: esiste una "via fiscale alla crescita", in parte già sperimentata. Un'altra questione da porsi, poi, è il rientro dal debito pubblico

Il saggio di Guido Rey costituisce una buona sintesi, condivisibile, delle problematiche dell’economia italiana. Volendo sintetizzare in una sola frase, si può dire che il processo che dal 1992 al 1998 ci ha portato all’euro ha da un lato salvato il nostro paese da una deriva argentina (nel senso specifico di un default dei titoli pubblici), dall’altro ha creato una situazione del tutto nuova per le imprese italiane, le quali per circa venticinque anni si erano abituate a recuperare (o più che recuperare) competitività attraverso le svalutazioni.

 

Come hanno reagito le imprese? Una minoranza, cioè quelle tre-quattromila imprese da cui dipende l’export, ha innovato processi e prodotti, le altre hanno approfittato del sistema duale del mercato del lavoro che si stava creando, per adagiarsi su produzioni labour intensive che hanno fatto diminuire la disoccupazione, ma con produttività stagnante e precarietà alta. 

 

Rey ha quindi ragione quando afferma che il problema italiano riguarda l’offerta e non la domanda. Certo se il sistema di ammortizzatori sociali fosse stato reso più universale, e si fosse aggiunto un sostegno al reddito di ultima istanza (con i dovuti controlli), destinando a questo scopo risorse che il governo ha buttato inutilmente, il sostegno al reddito delle famiglie più bisognose sarebbe stato più adeguato, con qualche effetto positivo sulla domanda di consumi.

 

Come fare per cercare di avvicinarsi agli obiettivi indicati da Rey? Mi limiterò ad un solo tema, sul quale ho qualche competenza specifica. Uno dei problemi delle imprese è la dimensione, e la bassa capitalizzazione. Ora su questo problema nella legislatura 1996-2001 era stato introdotto un incentivo, alla crescita del patrimonio proprio, tramite la dit; il termine fu mutuato dall’esperienza fiscale dei paesi scandinavi, ma il sistema  italiano di dual income tax non è quello scandinavo. Piuttosto si riferisce al fatto che se un’impresa effettuava incrementi patrimoniali (utili messi a riserva, aumenti di capitale) una percentuale di reddito veniva tassata con un’aliquota più bassa (praticamente la metà, visto che l’aliquota normale era al 36% e quella ridotta al 19%).

 

Le imprese ci misero un bel po’ di tempo per capire di cosa si trattasse. Questo in parte derivava dalla complessità della normativa; infatti per evitare che una società riducesse il capitale da un lato, per presentarlo come incremento dall’altro, fu necessario introdurre limiti e condizioni. Ma sembra che il problema principale fu quello della difficoltà del medio imprenditore di ragionare in termini di valore attuale dei risparmi di imposta per tutti gli anni futuri, che avvengono fino a che l’aumento di capitale persiste. L’imprenditore guardava cioè solo all’immediato, e il risparmio di un anno gli sembrava modesto. Da alcuni studi effettuati sembra comunque che la dit abbia  effettivamente avuto un effetto positivo sulla crescita degli investimenti e del patrimonio delle imprese.

 

Alla luce dell’esperienza ci si può chiedere se vi è una misura che nel lungo periodo dovrebbe essere equivalente, ma che possa essere percepita più facilmente e che fornisca quindi un maggiore incentivo. La misura è quella della detassazione (parziale o totale, questo dipende da problemi di bilancio) degli aumenti di capitale, siano essi utili reinvestiti che soldi “freschi”; simmetricamente le riduzioni di capitale dovrebbero essere tassate. In questo modo il sistema impositivo, che si basa sull’utile civilistico, si avvicinerebbe alla cosiddetta tassazione cash flow, che considera base imponibile tutte le entrate, a qualsiasi titolo, meno tutte le uscite. Bisogna studiare il modo per non rendere pro-ciclico il meccanismo impositivo, così come è opportuno modificare quello attualmente esistente che limita la deducibilità degli interessi passivi, che presenta un effetto pro-ciclico.

 

Una misura di questo genere può anche contribuire a rendere più trasparente il bilancio di molte srl (o anche spa a ristretta base azionaria) che presentano bilanci fiscali (e spesso anche civilistici) con utili nulli o negativi (si tratta di quasi la metà delle società). La ragione deriva sia dall’evasione fiscale, sia dal fatto che i soci che lavorano nelle società fissano delle remunerazioni ad un livello tale da assorbire gli utili, perché in questo modo riducono il peso dell’imposta. Col meccanismo sopra descritto vi sarebbe un incentivo a far emergere utili ed aumentare il capitale.

 

Vorrei accennare anche ad un altro tema, che riguarda l’andamento del debito pubblico. Rey sottolinea giustamente che l’entrata nell’euro ha favorito un processo di riduzione del rapporto debito-pil che nella seconda metà degli anni novanta è sceso significativamente. Tuttavia a cominciare dal 2001 la discesa ha cominciato a rallentare e si è esaurita nel 2004. Nei due anni successivi il rapporto ha ripreso a crescere per poi essere di nuovo volto verso il basso dalla finanziaria 2007 di Prodi. Ovviamente ora il debito sta di nuovo aumentando velocemente per via della recessione, come peraltro sta succedendo dappertutto. Mal comune mezzo gaudio, si potrebbe dire, ma resta il fatto che il nostro debito pubblico è sempre sotto una speciale lente d’osservazione, anche se gli operatori finanziari hanno in parte capito che a fronte dell’alto debito pubblico c’è un basso debito privato ed un’alta propensione al risparmio. Lo spread sui titolo tedeschi, che era arrivato a 170 punti base, si è dimezzato, ma ancora poco tempo fa un’emissione di titoli trentennali ha avuto uno spread di 108 punti base; solo due anni fa lo spread oscillava tra 20 e 30 punti base.

 

Esiste quindi, non lontano nel tempo, un problema di rientro del debito; a questo proposito è utile andare a vedere una tabella contenuta nell’appendice dell’intervento di Draghi alle Commissioni Bilancio delle Camere sul Dpef 2010-2013 (11 luglio 2009). In esso le manovre di bilancio degli ultimi undici anni  vengono scomposte tra manovre una tantum e manovre permanenti (fig.1: avanzo primario ed effetti transitori). Colpisce il fatto che le misure dei governi Berlusconi 2002-2006 siano costituite, per la grande parte, da interventi temporanei; questi non sono mancati né prima né dopo da parte dei governi Prodi, ma in misura decisamente più contenuta. La filosofia de “ha dda passà a nuttata” è la stella ispiratrice di questa destra al governo. Credo che ormai si tratti di una politica agli sgoccioli. Non mi soffermo solo al fatto che tutta la parte costituita dai condoni e scudi fiscali costituisca entrate immediate e perdite future; il fatto è che in futuro non sarà possibile continuare su questa strada.

 

Il problema però se lo devono porre anche le forze d’opposizione; c’è una dinamica della spesa che è incompatibile con la crescita del reddito; occorre fare tutti gli sforzi possibili per far crescere di più l’economia, lungo le linee indicate da Rey, ma ciò comporta anche un intervento sulla struttura della spesa pubblica; è opportuno iniziare a discutere su questo tema.   
Mercoledì, 30. Settembre 2009
 

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