Iraq, in attesa di Clinton o Obama

I democratifci potrebbero fermare il disastro iracheno, ma non lo fanno. La tecnica del filibustering potrebbe essere rovesciata contro Bush...

La guerra in Iraq si trascina e gronda sangue ogni giorno. Sangue in minoranza americano, una media mensile ormai stabilizzata sui 100 morti, e in larghissima maggioranza iracheno, dai 3.500 ai 5.000 civili ogni mese, vittime degli insorti, degli americani e dei loro soci: in tutto, forse, tra 74.000 e 81.000 morti (secondo le stime calcolate, su fonti ufficiali statunitensi (Iraq Body Count, www.iraqbodycount.org/).
Però, spiegano con precisione sul sito, neanche noi siamo affidabili: anni fa, il gen. Tommy Franks, richiamandosi esplicitamente al precedente del Vietnam, aveva chiarito che è “policy” ufficiale del Pentagono quella di “non contare i morti iracheni”… Ed è “policy” realistica delle autorità governative irachene quella di non provarci neanche. C’è, a dire il vero, chi ha parlato di ben altre cifre: sui 650.000 morti dal marzo 2003 all’ottobre 2006, informa e documenta uno studio apparso sulla prestigiosissima rivista medica britannica Lancet (cfr. lancet.com/webfiles/images/journals/lancet/s0140673606694919.pdf/). Tutto questo va avanti perché Bush e i bushotti residui lo vogliono. Ma va avanti anche perché i non bushotti, la maggioranza democratica al Senato e alla Camera, li  lasciano fare. La verità, tragica, è questa.

Per lo meno Bush si illude che sia suo compito salvare il mondo dall’ “asse del male”. Come, del resto, gli disse a suo tempo il Padre: quello con la p, appunto maiuscola, come ebbero a spiegare diversi suoi interlocutori (uno, Abu Mazen…) e confermò lui stesso in un famosissimo libro- intervista a Bob Woodward, il giornalista che fece scoppiare il Watergate quasi quarant’anni fa, chiarendo che Bush senior “è il padre sbagliato cui rivolgersi per consigli… il padre giusto cui io mi rivolgo è quello che sta più in alto” (cfr. B. Woodward, Piano d’attacco, ediz. ital. 2004, Sperling & Kupfer).

I democratici, invece, non ci credono. Sanno che è un errore, la guerra, e si spingono anche a dire, ormai sempre più di frequente, che è pure un crimine. Cominciano a ribattere con forza e, sembrerebbe, con convinzione, ai neocon anche candidati presidenziabili come Barak Obama e, perfino, Hillary Clinton, bollando apertamente quale errata e pericolosa la tesi di William Kristol e Robert Kagan, nel famoso saggio, fondativo della tendenza, pubblicato su Foreign Affairs, 7-8.1996 ed intitolato Verso una politica estera neo-reaganiana—Toward a Neo-Reaganite Foreign Policy (cfr. http://www.foreignaffairs.org/19960701faessay4210/william-kristol-robert-kagan-toward-a-neoreaganite-foreign-policy.html/) che teorizza  di una “benevola egemonia americana” come cosa intrinsecamente buona e giusta per il mondo.

Adesso molti democratici dicono che l’America non ha il diritto e, ormai neanche il potere, di dominare ed imporre la sua visione del mondo con la forza delle armi a chi non concorda; che è – perfino: ma qui con qualche esitazione – fasulla la rivendicazione di un “eccezionalismo” che consentirebbe di dire, come i neocons (ma non solo…), che quello che ad altri è proibito a noi, perché siamo noi, è consentito; e che bisogna adoperarsi a creare una qualche forma di “impero universale” americano perché, in quanto nostro, sarebbe comunque migliore di qualunque altro…Ma, detto questo, poi non agiscono per fermarla come potrebbero e, visto quel che vanno dicendo, dovrebbero. Perché davvero potrebbero.

Da questo punto di vista, a parte i massacri e contromassacri intestini che squartando l’Iraq e trascinandolo a breve, ormai, come unica soluzione, alla spaccatura, mai tanta chiarezza è stata fatta quanto durante le audizioni del mese scorso al Congresso del comandante militare americano in Iraq, il generale David Petraeus. Dateci tempo, forse fra un anno potremo cominciare a ridurre il  numero delle truppe… Ma andarsene adesso, no: porterebbe al caos.Come se, oggi, in Iraq imperassero legge, ordine, pace e democrazia… Oltre alla guerra e alle guerriglie di tutti contro tutti e ciascuno contro ciascuno, ora più che mai (per mascherare all’opinione pubblica l’aumento reale di quasi un terzo delle truppe americane in Iraq), imperversano i mercenari. Che sempre, qui, ci sono stati a supporto, ma mai erano arrivati a rimpiazzo di fanti e marines quasi in cinquantamila.

I ragazzoni strapagati, cioè, delle imprese di sicurezza (sic!) come la Blackwater, fondata da un famiglio di Bush: un esercito supplementare privato (quasi cinquantamila guardioni) ed “uno dei modi con cui l’Amministrazione ricompensa i suoi amici politici con contratti sontuosi a licitazione privata” (1.200 dollari al giorno per uno, di cui la metà vanno alla ditta che procura lo staff leasing).E’ questa la sintesi, ed il giudizio di sintesi, di un editoriale del New York Times del 4.10.2007, sui Ricchi contratti della Blackwater— Blackwater’s Rich Contracts). Sono gli uomini che hanno rimpiazzato soprattutto i marines nei servizi di sicurezza a diplomatici, capi militar e civili, americani e iracheni, e che impazzano senza controllo (cfr. Blackwater è “un organismo fuori controllo indifferente a ogni vittima che non sia sua e sia soprattutto irachena”, idem).

Dopo fatti come questi, su cui i senatori democratici si strappano vesti e capelli, il Senato alla fine pur avendolo criticato aspramente, ha detto sì al generale Petraeus. Gli ha dato il tempo richiesto e a lui e a Bush ha dato i soldi che, subito dopo, sono andati a chiedergli: quasi 200 miliardi di dollari di finanziamento “suppletivo” per fare la guerra. Alla fine della fiera, ha finito con l’approvare ancora una volta – per l’ennesima volta e sostanzialmente come arrendendosi per rassegnazione – la risoluzione che consente alla Casa Bianca di continuare a fare la guerra.Ma avrebbe potuto non farlo. Semplicemente rovesciando il tavolo delle presunzioni su cui il presidente basa la sua capacità di legiferare: il potere di veto presidenziale su quello che chiede la maggioranza, il potere della minoranza di far ostruzionismo contro la maggioranza.

Sarebbe bastato esercitare una volta tanto anche il potere di veto, di interdizione, di ostruzionismo che – in base alle stesse procedure – ha anche la maggioranza. Perché quando dicono che per battere Bush in Senato non basta la maggioranza dei democratici (51 senatori su 100), ma che si dovrebbero mettere insieme 60 voti su 100 per bloccare l’ostruzionismo della minoranza repubblicana (filibustering, lo chiamano qui: dalla filibusta, la guerra di corsa con cui i filubustieri, pirati o risarei che fossero, bloccarono con successo per decenni tra il 1500 ed il 1600 nell’Atlantico perfino l’invincibile Armada…), o che ci vorrebbero addirittura 67 voti per superare il veto presidenziale agli emendamenti della maggioranza, in realtà dicono il falso.

Harry Reid, il leader di maggioranza del Senato, o se non volesse lui i senatori democratici disposti a farlo – e ce ne sono più dei 41 necessari – potrebbero, infatti, semplicemente proclamare che eserciteranno loro il proprio potere di ostruzionismo: qualsiasi legge presentasse il presidente per continuare la guerra, con la richiesta di finanziamenti dovuta, non passerebbe perché hanno i voti, loro, per bloccarla col filibustering. Perché è questione di semplice aritmetica, e chi scrive non crede proprio che non sappiano fare due più due. E’ un fatto: per superare il filibustering ci vogliono 60 voti (e i repubblicani oggi, appunto, con la loro quarantina abbondante di voti fanno ostruzionismo sempre e ogni volta per impedire emendamenti condizionanti dei democratici alle iniziative legislative della Casa Bianca). Ma, ed è anche un fatto: bastano appena 41 voti – lo dice la Costituzione: non 60 o 67, come dimostra la leadership repubblicana – a bloccare il passaggio di qualsiasi iniziativa legislativa. Sia essa di un senatore qualunque o del presidente.

Nessuno sembra rendersi conto che se l’obiettivo non è più quello di passare una legge ma quello inverso di bloccarla, scende di un terzo la maggioranza di cui c’è bisogno. O, meglio, magari se ne rendono conto ma, anche se sanno di avere i due terzi del paese alle spalle (il tasso di approvazione dell’operato di Bush in Iraq è ormai da mesi sotto il 30%) semplicemente non osano. In definitiva. Se facessero blocco anche solo 41 dei senatori che sono stati eletti a novembre 2006 su una piattaforma dichiaratamente anti-guerra, morirebbe ogni legge che volesse rifinanziare la guerra. Non passa la legislazione voluta dai democratici per un ritiro magari graduale ma certo dall’Iraq a causa dell’ostruzionismo dei repubblicani bushisti? È un fatto e se ne prende atto. Ma non passa neanche la legge chiesta da Bush per rifinanziarsi la prosecuzione delle sue guerre. Non ci sarebbe più legge d’autorizzazione, non ci sarebbe più rifinanziamento e, dunque, non ci sarebbe più guerra. E Bush non potrebbe stavolta esercitare il veto se una legge su cui esercitarlo non c’è…

A questo punto, o il presidente si piega e la ripresenta in una versione accettabile per i democratici e per gli americani che hanno dato loro la maggioranza. E si mette in moto, si accelera e si completa il ritiro delle truppe. Mettendosi il paese anche in grado, chi sa?, di fare politica e fare diplomazia per tentar di risolvere il disastro che ha combinato con la guerra in Iraq, riprogrammandovi una qualche altra – di altro tipo – presenza americana nel quadro, allora sì di un grande programma internazionale che faccia ricorso per la necessaria stabilizzazione e ricostruzione a tutte le forze presenti nella regione…
O il presidente si piega, dicevamo, o non accetta di farlo, non accetta di arretrare dalle sue allucinanti illusioni. Ma non ha più, comunque, i soldi per continuare come va facendo, né a quel punto il “consenso” del Senato per farlo e, allora, neanche la credibilità internazionale per continuare a prenderli in prestito dal resto del mondo i finanziamenti che il mondo stesso saprebbe essere non solo illegittimi ma pure illegali. E la guerra smette. Come la tentazione di fare altre guerre per togliersi dalle peste sventolando la bandiera. Insomma, non sarebbe impossibile, con gli strumenti che il Congresso ha in base alla Costituzione. Solo che si decidesse ad usarli. Solo che le decine di don Abbondio che finora non l’hanno trovato pur convinti che potrebbero e dovrebbero farlo, trovassero il coraggio di farlo.

Come diceva Manzoni, però, uno se il coraggio non ha, non può mica darselo. Ma speriamo sbagliasse…
Il coraggio in questione sarebbe quello di dire di no a una guerra che è stata inventata sì, costruita su un mucchio di fandonie criminali, pure, sporca come ogni guerra ma anche di più (Abu Ghraib, ecc.). Una guerra che sta infangando l’anima dell’America, svuotandone le capacità egemoniche e rubandole il rispetto morale degli altri e di sé. Ma che resta una guerra in cui adesso sono impegnati i “nostri ragazzi”.
E’ il coraggio di capire che dire no a finanziarla, tra l’altro, non significa affatto come dice il presidente e spappagalleggiano i suoi corifei lasciarli senza difesa – senza pallottole, dicono gli spudorati che gli negano i giubbotti antiproiettile, spesso – laggiù nei deserti della Mesopotamia, ma portarli a casa a non morire più per una causa nobile solo sulla carta e nelle favolette del presidente (la libertà dell’Iraq) ma infame negli atti e nei fatti.

Non la libertà, né la democrazia infatti. Ma, al meglio, il petrolio, come ha appena confessato Alan Greenspan, l’ex capo della Banca centrale nelle Memorie appena pubblicate, in venti-parole-venti di suprema ma assolutamente rinfrescante cinica real politik: “mi rattrista che sia considerato tanto politicamente scorretto ammettere quello che poi sanno tutti: che la guerra in Iraq è motivata dal petrolio” (cfr. A. Greenspan, The Age of Turbulence- L’era della turbolenza, 2007, Penguin Press).
Il primo politicante, o statista magari, che trova il modo di dirlo semplicemente così e di portare dietro a sé la stragrande maggioranza che questo vuole – e lo ha detto: coi sondaggi e col voto – avrebbe diritto al Nobel della pace oltre che a vincere le prossime elezioni presidenziali.
Sabato, 6. Ottobre 2007
 

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